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Starmer, il pragmatismo del premier pone il Regno Unito a metà fra Usa e Ue
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Quando giovedì scorso ha fatto visita a Donald Trump, il primo ministro britannico Keir Starmer ha raggiunto la Casa Bianca non a bordo di una Jaguar o di una Range Rover dell’ambasciata a Washington, ma con un’auto americana. Sembra particolare di poco conto, ma rientra nella strategia di Downing Street per conservare i buoni rapporti con l’amministrazione repubblicana, considerando anche che i due marchi sono molto apprezzati dagli acquirenti americani e di mezzo potrebbe saltar fuori qualche dazio che andrebbe a impattare sul mercato. È un dato di fatto: mentre Trump prepara le contromisure doganali con l’Unione Europea, il Regno Unito per ora è fuori pericolo grazie alla Brexit quando il premier laburista si era battuto per restare nell’Ue.
Pragmatismo: è ciò viene riconosciuto a Starmer anche dai commentatori più critici. Se è vero che tra Londra e Washington esiste quella Special Relantioship marchiata dalle parole di Winston Churchill, nell’epoca dei ribaltamenti trumpiani non è scontata. Resiste, magari controvoglia, ma c’è. Starmer ha annunciato l’aumento della spesa militare britannica che raggiungerà in due anni un livello mai visto dalla Guerra fredda: quasi 13,5 miliardi di sterline in più all’anno per un apparato dotato, tra le altre cose, di armamenti nucleari. Al vertice londinese di ieri ha chiesto lo stesso sforzo ai colleghi europei: sa che è la risposta concreta ad un Trump che chiede agli alleati NATO di assumersi le proprie responsabilità. Ecco che nel nuovo scenario in corso il Regno Unito si muove a metà: attraverso l’Atlantico e riavvicinandosi all’Ue in tema di difesa, ma sempre sotto l’ombrello della NATO – Starmer ha garantito nel suo programma elettorale che non metterà in discussione Brexit, se lo facesse finirebbe travolto dall’ondata del Reform UK di Nigel Farage in forte ascesa. Trova sponda nell’Italia di Giorgia Meloni sulla necessità di evitare una rottura nel fronte occidentale e rinsalda i rapporti con la Francia di Emmanuel Macron, raffreddati dopo lo strappo referendario del 2016: il primo ministro e il presidente francese sono stati i primi a ipotizzare l’invio di truppe per le operazioni di peace-keeping in Ucraina dovesse mai arrivare una tregua e si sono dati il cambio nell’incontrare Trump.
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Restano due punti fermi nella politica estera britannica: l’appoggio a Kiev e l’avversione per Mosca. Il primo è saldo dai tempi di Boris Johnson e nell’incontro di sabato con Volodymir Zelensky è stato rimarcato. Notare però che sempre ieri Lord Mandelson, ambasciatore di Sua Maestà negli USA fresco di nomina, ha incoraggiato il presidente ucraino a tornare alla Casa Bianca per riprendere il dialogo interrotto. Quanto alla seconda, è nemica di una guerra di lunga data, specie a colpi di spionaggio: che si chiamasse Unione sovietica, con le drammatiche defezioni di agenti verso il blocco comunista, o Russia, con le operazioni dell’ex KGB sul territorio britannico per eliminare gli oppositori al dominio putiniano a colpi di omicidi efferati o avvelenamenti in luoghi pubblici. Certo sorprende vedere uno Starmer che si muove con decisione nella trama diplomatica, considerando i tanti inciampi che ha già accumulato in politica interna dal suo insediamento. Reggerà? È la grande domanda che molti osservatori si pongono e non è un dubbio da poco con la posta in gioco che c’è.
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