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Cina, silenzio sospetto dopo lo scontro Trump-Zelensky: a cosa mira il regime comunista

Giovanni Sallusti
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Trump il mostro, Trump il bullo, Trump col colbacco moscovita e senza la ratio occidentale. Le analisi di questi giorni deragliano quasi tutte nella caricatura personale. A nessuno viene il sospetto che The Donald, irrituale quanto volete, abbia una strategia. Migliaia di parole al vento, che valgono meno di un post su X di qualcuno che ne capisce, Edward Luttwak.

«L’ostilità di Trump verso Zelensky riflette la sua priorità: staccare la Russia dalla Cina. Il fatto che non abbia mai insultato Putin è utile, ma ciò che conta davvero è il crescente allarme in Siberia per le intrusioni cinesi». In poche battute, si squaderna la faglia di rottura della contemporaneità. È la macro-sfida globale, rispetto a cui le micro-sfide regionali devono trovare una composizione coerente, in ottica americana, alla faccia della retorica ombelicale europea. Ci danniamo tutti per le steppe del Donbass, e non ci rendiamo conto di danzare in bilico sulla trappola di Tucidide. L’espressione è del politologo statunitense Graham Allison, ed è la chiave di un libro dedicato all’endiadi America-Cina intitolato “Destinati alla guerra”. È il rischio che si innesca quando le aspirazioni di dominio di una potenza in ascesa si scontrano con l’interesse della potenza egemone (come nella dinamica tra Atene e Sparta raccontata appunto da Tucidide nella Guerra del Peloponneso).

 

Un rischio amplificato da un grande abbaglio occidentale e dalla nuova postura della leadership cinese. L’abbaglio è storico, e tutto farina del sacco democratico: è la grande illusione clintoniana di “normalizzare” il Dragone coinvolgendolo nel sistema del commercio globale. Globalizzando la circolazione delle merci e dei capitali alla lunga si globalizzerà anche la libertà politica, era il teorema ottimistico ed autoriferito delle élite dem. Il risultato è stato esattamente l’opposto: sfruttando la leva della concorrenza sleale, la Cina totalitaria ha lanciato un’Opa industriale sull’Occidente, fino a diventare la fabbrica del mondo. Per inciso, c’è questa dinamica all’origine del trumpismo come fenomeno politico: la rivolta del “forgotten man”, del lavoratore e del membro della classe media americana tradito da questa globalizzazione autolesionista. È l’affresco tormentato dell’“Elegia americana”, l’opera letteraria del vicepresidente J.D. Vance. Entrambe i “litiganti” nello Studio Ovale con Zelensky hanno perfettamente chiaro la portata della sfida esistenziale posta dalla Cina al cuore, produttivo e simbolico, dell’America.

 

Ed entrambi hanno chiaro che Xi Jinping ha aggiornato la dottrina geopolitica cinese, imperniandola sull’apertura di una Nuova Era globale che abbia il suo centro egemonico a Pechino. Come ripeteva Henry Kissinger, è una nuova contrapposizione potenzialmente più esplosiva della Guerra Fredda: «Noi avevamo un antagonista ideologico che non era un concorrente economico. Oggi ci troviamo di fronte a un avversario che è un potente concorrente e implicato in maniera complessa nell’economia politica dell’Occidente». Per cui, come sostiene una scuola diplomatica maggioritaria nel Partito Repubblicano, la priorità geopolitica odierna è proprio riprendere lo schema Nixon-Kissinger, cambiandolo di segno. Impedire la saldatura tra i due giganti asiatici, costruendo una sponda col più debole: oggi, la Russia.

Lavorando su una costante: la collisione strategica fatale, saldata nella geografia e scritta nella storia, tra Mosca e Pechino. Pace in Ucraina significa soprattutto togliere Putin dalla condizione di vassallo obbligato, in primis economico e tecnologico, del Dragone. Significa segnare un punto fondamentale nella partita per l’egemonia del nuovo millennio che, piaccia o no agli intellò euro-fondamentalisti, si gioca nel Pacifico. Schierati ci sono lo Zio Sam e il Partito Comunista Cinese. Nessun uomo libero può avere dubbi.

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