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Sinistra, poveri compagni: non funziona nemmeno l'allarme sull'ultradestra

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Giovanni Sallusti
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Al mainstream follemente corretto (qui bisogna usare la categoria forgiata da Luca Ricolfi, “politicamente” ormai è un avverbio troppo generoso) non resta che la guerra delle parole, e si stanno avviando velocemente a perdere pure quella. L’ultimo lemma del Dizionario Collettivo per esorcizzare lo spettro del libero popolo votante è “ultradestra”. Per cui in Germania “vola l’ultradestra”, come hanno copia&incollato nel titolo di apertura Repubblica, Messaggero e Gazzettino. Il Corriere e Il Mattino si sono concessi una variante aritmetica con “raddoppia l’ultradestra”, mentre il Quotidiano Nazionale ci ricorda che i popolari fanno da “argine all’ultradestra” (replicando quell’alleanza innaturale con la sinistra che ha fatto deragliare la fu locomotiva d’Europa, ma sono dettagli). Il punto è il talismano lessicale, che diventa subito escamotage semantico per rifuggire la fiumana della storia e ricostruire la contrapposizione manichea, ormai fumettistica: Noi/Loro, il Bene euro-inclusivista contro il Male nazional-rurale, gli Eletti (anche se sgraditi al “demos”) e i Reietti (anche se votati).

“Ultradestra” è l’ultimo stadio di una via crucis terminologica e (im)politica sempre più inverosimile, e proprio per questo sempre più strillata. In principio fu l’allarme “fascismo”, che ormai non allarma più nessuno, anzi ha ottenuto il paradossale effetto di rendere il regime finito nel 1945 un perfetto prodotto dell’industria culturale del 2025, roba ideale per attori che fatturano interpretando il Duce e si disperano a reti unificate per averlo fatto. Venne poi la stagione del “destra-centro” o della “destra-destra”, ridondanze pseudoresistenziali per sottolineare un peggioramento rispetto al Ventennio berlusconiano, che in diretta ci veniva presentato come il peggiore dei mondi possibili. Con la vittoria di Donald Trump (il capo dei Repubblicani americani variamente appellato come “fascista”, “suprematista bianco” eccetera), lorsignori fanno un ulteriore salto di qualità e s’inventano il feticcio concettuale della “tecnodestra”. Qui piombiamo nel dadaismo, o per esprimerci come i buzzurri destrosi che siamo, nella presa per il deretano esplicita. “Tecnodestra” indicherebbe infatti quell’oligopolio tecnologico-industriale che finché ha sostenuto Obama&Co. ha rappresentato le magnifiche sorti e progressive della democrazia 5.0, mentre appena è passato nella metacampo trumpiana ha assunto i connotati del moderno totalitarismo (Musk in testa). Da lì in poi, si è abbandonato ogni vago canone di realismo. Si è transitati quindi direttamente a evocare il rischio “nazismo” (sì, proprio quelle sillabe immonde che scomodano la guerra totale e l’Olocausto) per esorcizzare la performance elettorale di Afd.

 

 


Intanto, la sua leader Alice Weidel relegava Hitler là dove deve stare, nella storia del nazional-“socialismo”, dichiarando che “noi libertarie conservatori siamo l’opposto”. Ma nessuno registrava la presa di distanza radicale, anzi tutta la irridevano. Oggi che ha ricevuto il consenso di un quinto dei tedeschi, si relegano costoro a «ultradestra», gentaglia da birreria di Monaco che si esprime a suoni gutturali. E si ricorre a un altro classico della neolingua progressista: il «cordone sanitario» a disinnescare i nuovi barbari. Un’autentica accademica della neolingua come Laura Boldrini, ad esempio, si è rallegrata perché «ha retto il cordone sanitario degli altri partiti». Che nella realtà si chiama accozzaglia imbastita per ridurre chi critica lo status quo a paziente con un problema clinico. È la medicalizzazione del dissenso, vecchia pratica stalinista riverniciata d’ipocrisia petalosa. Ma non occorre prendersela troppo, ormai sono parole al vento. Anzi, controvento.

 

 

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