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Henry Kissinger è tornato ma ce l'ha con la Cina: Pechino tra Usa e Russia
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L’Europa è in crisi isterica per la prospettiva che gli Stati Uniti di Donald Trump negozino una pace fra Mosca e Kiev basata in sostanza sulla mutilazione della nazione invasa. Al contrario, la Cina si rallegra: «Siamo felici», ha detto ieri Guo Jiakun, portavoce del ministero degli esteri, «di vedere la Russia e gli Stati Uniti rafforzare il dialogo». Tuttavia, non sarebbe strano sedi qui a poco le parti si invertissero e Xi Jinping si trovasse a rimpiangere i bei tempi in cui Putin gli scodinzolava fedele al fianco, felice di svendergli gas e petrolio. Il fatto è che alla Casa Bianca è comparso un fantasma: quello di Henry Kissinger, l’uomo che spinse il presidente Nixon a fare la storica apertura al gigante asiatico maoista con quella che divenne famosa come la diplomazia del pingpong. Una scelta strategica che aveva l’obiettivo di contrapporre all’Urss, cioè il nemico principale di allora per gli Stati Uniti, un Paese che, nonostante la comune appartenenza ideologica al comunismo, era già ai ferri corti con l’ex alleato russo. Kissinger realizzò il colpaccio seminando zizzania nel campo avversario (tattica replicata con minore successo nel caso di Tito e Ceausescu) e innescò un cambiamento di portata tale che ne vediamo le conseguenze ancora oggi: l’ingresso della dittatura cinese nel mondo del capitalismo, lo strano statuto di Taiwan e l’amore-odio che perdura fra Pechino e Mosca.
Uno spettro realpolitiker fa cose opposte a quelle che realizzò in vita, però il principio in base al quale agisce è lo stesso. Stavolta Washington vuole rimediare all’errore strategico dell’amministrazione Biden la quale, pur avendo ben presente che il pericolo esistenziale per l’America è la Cina, fece di tutto per andare allo scontro con l’orso russo sull’Ucraina, spingendolo a trovare una intesa con il Dragone. Non c’è quindi speranza per Kiev? No, non ce n’è più. Per la nuova amminsitrazione americana, lo ha ripetuto anche il segretario alla difesa Pete Hegesth in questi giorni, il centro degli interessi è il teatro indopacifico e Trump non vuole avere uno scontro anche con la Russia, che resta certo un «competitor» e talvolta un «avversario» (lo ha chiarito la Casa Bianca mercoledì) ma non il nemico. Concetto confermato dal via libera al ritorno di Putin nel G7.
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La guerra in Ucraina è stata un bagno di sangue ma anche una fonte di umiliazioni per la Russia, costretta più volte a subire colpi durissimi da un nemico più piccolo, più debole ma anche determinato e più ingegnoso. È vero che tutte le guerre combattute nelle vaste pianure dell’est europeo si sono svolte allo stesso modo, con continui va e vieni. E tuttavia stavolta non è una questione di linee di rifornimento che si allungano a dismisura bensì della realtà stessa delle potenze che si fronteggiano. E cioè: la Nato è troppo forte per la Russia, la Russia è troppo forte per l’Ucraina. E, con l’arsenale atomico che si ritrova, Mosca risulta alla fine intoccabile per chiunque.
Il dittatore russo farebbe qualunque cosa, anche leggere l’opera omnia di Alexander Dugin, pur di rimediare alla cappellata. Un errore imperdonabile tanto più che Kiev prima o poi sarebbe tornata nella sfera di influenza del Cremlino senza colpo ferire. Perché all’Occidente, del Paese dei cosacchi, non è mai importato granché: l’America di Biden ha sfruttato l'occasione del conflitto per staccare i suoi imprevidenti e indisciplinati alleati dalla dipendenza da Gazprom. I Paesi dell’Europa occidentale hanno partecipato al conflitto senza convinzione. Gli Stati dell’est ci hanno messo più impegno ma sono piccoli e deboli. La verità è che la guerra è terminata da tempo. E non è colpa di Zelensky o di Putin che non hanno voluto accettarlo ma di chi in Occidente non ha voluto farla finita prima, per il sogno illusorio di vedere i russi sconfitti o impantanati in eterno. Ma è altrettanto vero che il conflitto che si avvia forse a terminare è solo una battaglia in una guerra più vasta e decisiva. Quella con i nipoti di Mao.
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