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Donald Trump vuole trattare, tutta la verità sui dazi (e sul ruolo di Giorgia Meloni)

Daniele Capezzone
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Gli odiatori isterici di Donald Trump farebbero bene a tenere a mente l’illuminato suggerimento che, qualche anno fa, fu dato a tutti dal grande Niall Ferguson: Trump va preso «seriously, not literally», cioè va considerato seriamente (per la sostanza di ciò che fa), ma non alla lettera (per le parole fiammeggianti che usa). E questo vale anche per la materia scottante dei dazi, che – come principio generale – a noi di Libero non piacciono granché. Dazio chiama contro -dazio, e una spirale del genere, alla fine, può rendere il commercio mondiale meno libero, più costoso, meno vantaggioso per tutti.

Tuttavia, per evitare di cadere nella lagna a cui si stanno abbandonando in troppi, sarebbe il caso di non dimenticare quattro punti fermi, da cui discenderà una conseguenza tutta politica. Primo: i dazi imposti dalla prima Amministrazione Trump (2017) non produssero un’impennata dell’inflazione. Chi lo sostiene mente. La salita dell’inflazione ci fu invece dal 2021 in poi, per effetto delle misure economiche sballate e dirigiste (green, sussidi, pacchetto post Covid) volute da Joe Biden.

Secondo: a proposito di Biden, pure lui mise dazi e li elevò addirittura. Ma, siccome all’epoca vigeva il teorema del “Biden lucidissimo”, tacquero sia gli economisti sia i commentatori politici. Curiosa intermittenza dello spirito liberale anche in economia, come su molte altre cose: ultrasensibile se c’è di mezzo Trump, in catalessi quando invece a governare sono i dem.

Terzo: i dazi li imponiamo anche noi europei, sotto forma di Iva all’importazione. Da questo punto di vista, è abbastanza patetico che alcuni si strappino i capelli e si straccino le vesti per un’intenzione trumpiana, mentre gli stessi non fanno un plissé per un’azione europea nella medesima discutibile direzione.

Quarto: su una valanga di materie, già nelle prime quarantott’ore post giuramento, Trump ha agito attraverso lo strumento degli “ordini esecutivi”, cioè con l’equivalente americano dei nostri decreti, un atto normativo di efficacia immediata. Nel caso dei dazi, invece, Trump non ha agito subito così nei confronti di tutti i Paesi, ma solo nei confronti di alcuni. E come mai? E qui si arriva alla conseguenza politica da trarre.

Trump (e questo, dal suo punto di vista, è perfettamente comprensibile) intende trattare, vuole cioè aprire una stagione di negoziati. Con tutti: con gli stati europei, con la Cina, con il Canada, con il Regno Unito, con qualunque altro interlocutore politico ed economico. E con ciascuno adotterà un metro diverso: a seconda degli interessi americani in gioco, a seconda della reazione degli interessati, a seconda del meccanismo di do ut des che lui e i vari interlocutori avranno l’intelligenza di confezionare in modo sartoriale.

E su cosa intende trattare? Qui la risposta è elementare: su tutto e a tutto campo. Sia sugli aspetti strettamente commerciali, sia sulle partite geopolitiche aperte caso per caso, sia (nel caso europeo e degli altri membri Nato) sul tema della difesa, visto che notoriamente i contribuenti americani – democratici inclusi – non sono più disposti a farsi carico in misura eccessiva delle esigenze di protezione militare degli alleati.

E allora? E allora servirebbe sangue freddo e un’accorta operazione politica. Sangue freddo vuol dire non abbandonarsi a polemiche scombiccherate e inconcludenti o a confuse e vacue invettive moraleggianti. L’Ue non ha il fisico per contrapporsi agli Usa, e meno che mai a questa Amministrazione Trump: Bruxelles è una specie di Bisanzio. La von der Leyen, scomparsa per settimane (un po’ alla sovietica) per un problema di salute, è ricomparsa nei giorni scorsi ricominciando a parlare di assurdi e antistorici piani green.

Con una prospettiva suicida del genere, mancherebbe solo che i ventisette si imbarcassero in una crociata commerciale (perdente) contro il loro principale partner economico e politico, cioè Washington. Va dunque evitata la logica della “levata di scudi” anti-americana: sarebbe un suicidio senza neanche il sollievo di un qualche trattamento eutanasico.

Semmai (e sta qui il dolore più acuto degli eurolirici, che ragionano sempre in funzione di Parigi e Berlino) stavolta è l’Italia che si trova in una posizione di oggettivo vantaggio per almeno due ragioni. Per un verso, l’eccellente rapporto che si è già creato tra Meloni e Trump può far sperare che verso Roma l’Amministrazione americana non abbia intenzioni commerciali negative (anzi); e per altro verso, potrebbe essere proprio Giorgia Meloni, con misura, a giocare un ruolo da pontiere. Immaginatevi la depressione e lo scorno di quanti – in Francia, in Germania, e pure in qualche palazzo romano – la sognavano isolata e marginale.

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