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Hamas, l'offensiva mediatica dei tagliagole all'angolo

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L’omicidio a sangue freddo in Svezia di Salwan Momika, il rifugiato iracheno che nel 2023 bruciò il Corano per protesta, è stato accolto con gioia e soddisfazione tra gli islamici. Sui social è già un tripudio di inshallah e Allah akbar, insomma di “giustizia è fatta”. D’altronde in gran parte dei Paesi islamici l’insulto al profeta e la blasfemia, ivi compresa la profanazione delle sacre scritture, sono punibili con la morte e non c’è punizione più simbolica di una pena capitale che venga comminata non tanto da uno Stato e da un boia ufficiale, ma da una provvidenziale mano sconosciuta che rappresenta la richiesta di giustizia di un mondo intero, quasi che quella mano comune sia stata guidata da milioni di fedeli e da Allah stesso. Chi sia stato a far materialmente fuori a colpi di rivoltella Momika, mentre pare stesse girando un video in casa sua, è tuttora ignoto. Si teme anche ci possa essere dietro una «potenza straniera», dicono le autorità svedesi riferendosi forse alla Turchia che ai tempi, anche a causa di quell’incidente, si era anche messa di traverso sull’entrata della Svezia stessa nella Nato. (...)

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