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La Bibbia best seller negli Stati Uniti: svolta politica, rivolta contro la cultura woke

Corrado Ocone
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Il mercato editoriale americano è più o meno stabile: il 2024 ha segnato un incremento delle vendite di appena l’1 per cento. C’è però un libro che ha fatto eccezione e le cui vendite sono schizzate alle stelle, segnando un aumento del 22 % rispetto all’anno precedente. Stiamo parlando della Bibbia, un testo che sembrava dimenticato in un’epoca di secolarizzazione spinta, letto ormai solo dagli specialisti e e da qualche residuo gruppo di credenti.

Un impulso al suo successo commerciale lo ha dato senza dubbio il video con cui Donald Trump ha promosso, nella primavera scorsa, l’edizione sponsorizzata da Lee Greenwood, autore della canzone “Good Bless the Usa”. «La cosa fondamentale che dobbiamo restituire all’America per renderla di nuovo grande è la nostra religione», ha detto in quell’occasione senza perifrasi il neopresidente. Trump, anche in questo caso, non ha fatto altro che intercettare una richiesta proveniente da quell’America “profonda” e “dimenticata” che lui riesce a rappresentare.

 

 

 

Di fronte alla disgregazione sociale, a molti è sembrato ovvio ritornare a quegli assi portanti su cui la nazione si è costruita e che connotano in ultima istanza l’identità occidentale. Pilastri che una cultura woke radicale e pervasiva aveva eroso in pochi decenni, in nome di un falso processo di emancipazione o liberazione che, volendo eliminare ogni riferimento ad un passato sentito come “colpa”, ha finito per incatenare a miti e dogmi molto più potenti dei precedenti. L’eredità giudaico-cristiana è stata la prima vittima di un processo che è sfociato inevitabilmente in un nichilismo e relativismo assoluti. Con l’effetto di escludere dal discorso pubblico il cristianesimo, la religione dell’amore e della libertà, e di tollerare l’avanzare di forme di religiosità fondamentaliste e illiberali quali l’islamismo politico.

 

 

 

Il “ritorno della Bibbia” è perciò un ulteriore e inequivocabile segno di quella reazione spontanea della società americana all’opera demolitrice della cultura woke che abbiamo già avvertito in questi giorni con episodi significativi quali la “conversione” di Zuckenberg al pluralismo delle idee sui suoi social o le prese di posizione contro le censure istituzionalizzate di intellettuali fino a poco prima silenti. Una reazione, allo stesso tempo, democratica, perché è sorta dal basso, e liberale, perché ha smontato i dispositivi di esclusione di disciplinamento messi in atto dal woke. Quei meccanismi che invece la nostra Europa, nelle sue classi intellettuali e nelle sue istituzioni, non sembra volere abbandonare, nonostante che anche qui si siano manifestati in varie forme, anche elettorali, sentimenti di insofferenza e disagio da parte dei cittadini.

Proprio in questi giorni, giusto per fare un esempio, sono uscite le Linee guida dell’Agenzia dell’Unione Europea per l’asilo: in nome della “protezione” dei rifugiati, esse non si pongono minimamente il problema della compatibilità delle loro culture di riferimento con gli ideali della società liberale. Delle due l’una: o l’Europa si allineerà prima o poi al nuovo clima e all’aria di libertà che arriva dall’America, o continuerà a percorrere una strada che, allontanandola dalla sua storia e dall’identità dell’Occidente, ne segnerà in modo irreversibile il declino. Certi discorsi delle sue classi dirigenti su una nostra presunta diversità ed eccezionalità, unite ad un antitrumpismo e un antiamericanismo di maniera, ci ricordano che la partita non è ancora vinta. Anzi, sarà lunga e difficile.

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