Annalisa Cuzzocrea & Co, tutte le piroette su Kamala Harris: fino a ieri la osannavano, oggi invece...
Giusto per capire l’aria che tira adesso, dopo la sberla: sulla Stampa c’è perfino un “graffio” dedicato al flop delle star pro Kamala: «Ma Hollywood non è la realtà». Eppure per tutta l’estate ci hanno messo in guardia su quanti voti avrebbero spostato Taylor Swift o Beyoncé, capaci di parlare al cuore della “generazione Z”. È l’ora della retromarcia. Manca solo l’editoriale dal titolo: «Kamala, chi?». Per il resto l’operazione rimozione è scattata alla grande. Su Repubblica c’è un lungo reportage sui tormenti nel partito dell’Asinello: «Pure le critiche verso Kamala sono pesanti: élitaria e allo stesso tempo eccessivamente deferente verso i gruppi d’interesse più liberal. Incapace di articolare una visione per il paese». Così viene il dubbio: ma si tratta dello stesso giornale che ha incensato la vicepresidente durante e dopo la convention di Chicago, ad agosto? Per tutti gli articoli, valga l’editoriale dell’allora direttore Maurizio Molinari: «Così Kamala Harris unisce l’America dei diritti» (22 agosto).
Altro tema, altro giro: dal ritiro di Joe Biden in poi, ci hanno raccontanto delle donne sulle barricate in nome della difesa del diritto all’aborto. «L’America non si è mobilitata per il diritto all’aborto», scrive adesso Annalisa Cuzzocrea, vicedirettore della Stampa. Al punto che negli Stati dove erano in calendario referendum sul te.ma, gli elettori hanno usato l’arma del voto disgiunto: «Sì all’aborto, ma no a Harris?». Ma come? Kamala non era la paladina dei diritti femminili, in nome dei quali avrebbe rovesciato il pronostico? Eppure adesso Cuzzocrea è impietosa: «Kamala Harris era una semisconosciuta fino alla nomination? Forse. Si era descritta più forte di quanto non fosse dentro il partito? Sicuramente». Sul giornale torinese in questi giorni va tenuto d’occhio soprattutto Alan Friedman, reduce da un vigilia elettorale tormentata. Ieri ha scritto: «Kamala Harris non è mai stata una candidata forte, ha subìto il medesimo destino dello sventurato vicepresidente Hubert Humphrey che nel 1968 subentrò come candidato ufficiale dei democratici dopo il ritiro dalla corsa del vicepresidente Lyndon Johnson». E perse di brutto da Richard Nixon.
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Eppure l’ex concorrente di Ballando con le stelle subito dopo l’entrata in gara di Harris definì Donald Trump «spacciato». Ecco cosa scriveva, sempre sulla Stampa, l’8 agosto scorso: «La campagna di Harris è stata efficace e brillante fin dall’inizio, i suoi spot elettorali sono stati prodotti molto bene». Sarà l’istinto a scendere il prima possibile dal carro degli sconfitti, ma ora è tutto un susseguirsi - per usare un’espressione cara di progressisti anglosassoni - di «Kamala is unfit» (Kamala è inadeguata). Ecco Maria Laura Rodotà, ancora sulla Stampa, descrivere una vicepresidente uscente «percepita come distante, condiscendente, diversa anche fisicamente» rispetto al popolo Usa. Il 21 luglio furono inni alla gioia per la sostituzione del vecchio Joe Biden con la rampante vice che sprizzava gioventù ed energia, con un passato di inflessibile procuratore giudiziario e un presente da calamita per nuove donazioni. Invece dopo l’“onda rossa” repubblicana Aldo Cazzullo, sul Corriere della sera, ammette che è stato un errore cooptare Kamala: «Si sono illusi (i democratici, ndr) che Harris, nonostante le palesi lacune, potesse batterlo o almeno tenergli testa». Si è trattato, spiega Federico Rampini sempre sul Corriere, di una «nomination oligarchica». Kamala (che lui ha comunque votato) è stata una «pessima candidata che si era sgonfiata subito alle primarie del 2020, Harris non ha mai avuto un’investitura dalla base del suo partito, non è mai passata attraverso un processo di selezione democratica (...). È stata premiata, in una logica omertosa, per aver partecipato alla congiura del silenzio sulla salute di Biden». Sic transit gloria mundi.