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Barack Obama, il retroscena: esce distrutto dal voto americano

Corrado Ocone
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Non fermatevi alle apparenze. Ad essere sconfitta non è stata Kamala Harris, o meglio non solo lei, ma anche e soprattutto colui che oggi tiene le fila di quello che più che il partito democratico sembra il partito di poche e influenti famiglie.

Sto parlando di Barack Obama, già presidente degli Stati Uniti per otto lunghi anni (dal 2009 al 2017), oggi il regista di tutta l’operazione che avrebbe dovuto evitare la vittoria di Trump e che invece si è conclusa con un sonoro ko per i democratici. Ancora a poche ore dall’apertura delle urne, Obama invitava sui suoi social a votare Kamala, che lui stesso aveva suggerito a Biden come vicepresidente quattro anni prima, paventando i rischi che la democrazia americana avrebbe corso in caso di una vittoria del suo avversario.

 

 

 

«Soltanto perché ogni tanto fa cose divertenti non significa che la sua presidenza non sarebbe pericolosa», aveva detto di Trump in un comizio tenuto ad Atlanta insieme alla sua candidata due settimane prima. Per il resto, Obama ha fatto tutto da solo, girando in lungo e in largo il Paese a sostegno della sua pupilla. In qualche modo, l’ha indicata come la sua erede, lasciando trapelare anche una certa tutela paternalistica nei suoi confronti.

Quasi a dire che garantiva lui per lei: «Insieme – ha detto in un altro comizio - creeremo una nuova generazione di leader e creeremo un’America migliore». Alla Convention di Chicago ad agosto l’aveva definita «il leader giusto per i nostri tempi», quasi come se si trattasse di un’altra persona e non di colei che era stata la vice del “defenestrato” Joe Biden e la più incolore e inefficace dei numeri due che abbiano mai calcato le soglie della Casa Bianca.

 

 

 

LO SLOGAN

Insieme a sua moglie Michelle si era spinto fino a rinvangare il vecchio slogan che aveva fatto la sia fortuna: “Yes, she can”. Sembrerà paradossale, ma il vecchio Biden, rappresentante di un’altra generazione di democratici, esce dalla vicenda come il “vincitore morale”. E non solo morale, se se si pensa al fatto che fu lui a battere Trump la volta scorsa. Chi se non gli Obama, e in parte Nancy Pelosi, hanno svolto quella pesante opera di persuasione che ha costretto un presidente acciaccato a rinunciare alla candidatura, nonostante che fino a poco tempo prima il suo nome andasse bene a tutti e nonostante avesse persino vinto le primarie del partito? Chi se non Obama aveva scelto la Harris, riuscendo nell’impresa eroica di “convertire” alla causa della vicepresidente tutto il vasto mondo mediatico e dello spettacolo che ruota attorno al suo circolo? Non è difficile immaginare che anche i temi della campagna elettorale, compreso un improbabile e tardivo sostegno alla classe media americana, siano stati dettati da quell’ex presidente che li aveva già tutti nel suo programma. Quasi a suggello di tutta l’operazione, la Harris aveva poi assunto, nel proprio comitato elettorale, molti dei più stretti collaboratori e consiglieri di Obama quando era alla Casa Bianca.

 

 

 

A fallire e a risultare sconfitto non è stato però solo l’Obama uomo, ma più significativamente e in generale tutto quello che egli rappresenta. Gli americani che hanno voltato le spalle a Kamala hanno capito che, con lei, sarebbe tornata al potere l’America delle élite chiuse, autoreferenziali, con la “puzza sotto il naso”.

Élite che, fondamentalmente, disprezzano il popolo rozzo e volgare, da cui si sentono lontane non solo antropologicamente ma anche moralmente. È l’America di coloro che hanno studiato nelle grandi università, non hanno mai avuto problemi economici, hanno frequentato sempre e solo i circoli giusti, che non conoscono la vita reale. Essi si ritengono i “migliori” e, in quanto tali, legittimati a indicare la via giusta agli altri, a porsi come pedagoghi. Sono i paladini di una cultura woke, forse declinante, che, in nome dell’ “inclusività”, ha finito per escludere coloro che oggettivamente erano impossibilitati ad entrare nel cerchio dorato dei “risvegliati”. La democrazia è altra cosa, in verità. E l’America, che distrugge i propri miti così come li crea, ce lo ha ancora una volta ricordato.

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