Javier Milei, una ricetta che funziona: meno spese dello Stato, più ricchezza per tutti
Quando uno Stato è sull’orlo del collasso monetario e fiscale, deve chiudere vari canali di emissione e di spesa. Ciò suppone licenziare funzionari, porre fine ai trasferimenti puri, interrompere gli acquisti ai fornitori privilegiati. È quello che ha fatto Javier Milei in Argentina, riducendo la spesa pubblica reale del 35% e sanando un disavanzo (tra tesoro e banca centrale) del 15% del Pil. A ridosso di queste misure, tuttavia, schiere di economisti keynesiani si sono fatti avanti, mani nei capelli, denunciando un imminente ed infinito ciclo di recessione e disoccupazione. La logica poggia sul modello a flusso circolare, introdotto dai fisiocratici e ripreso malauguratamente dalla Scuola di Chicago: se il governo spende meno, diminuisce la domanda aggregata; al diminuire la domanda aggregata, aumenta la disoccupazione; all’aumentare la disoccupazione si contraggono i redditi; al contrarsi i redditi diminuisce ulteriormente la domanda aggregata e così via. La soluzione? Riattivare la spesa pubblica e la maquinita.
DALLE PIETRE IL PANE
Ogni economista degno di questo titolo, come insegna Jesús Huerta de Soto, sa però che le manipolazioni monetarie e fiscali «non sono mai la via verso una prosperità economica sostenibile». Lo scenario keynesiano si dà solo nel mondo di Keynes, in cui la stampa dei biglietti è in grado di compiere - lo leggiamo nel Paper of the British Experts (1943) - il «miracolo di trasformare la pietra in pane» e dove le persone spendono, risparmiano, producono, lavorano senza tener conto né dei prezzi né del tempo. Se la filosofia di Marx, come notava Augusto Del Noce, è una “non-filosofia”, poiché muove dal rifiuto aprioristico del problema dell’arché, possiamo dire parimenti dire che l’economia di Keynes è una “non-economia”, poiché affonda le sue radici nella negazione della scarsità del capitale, nota agli economisti sin da Le opere e i giorni di Esiodo. In termini scientifici si tratta, come direbbe Eric Voegelin, di «una truffa intellettuale».
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Nella società degli uomini, man mano che la stretta fiscale e monetaria fa il suo corso, la struttura dei prezzi tende a contrarsi. Lungi dal condurre alla catastrofe, ciò significa un aumento del potere d’acquisto degli agenti economici, il quale stimola a sua voltala domanda, l’occupazione e i redditi. Da non perder di vista, tuttavia, è la ricomposizione delle variabili di crescita che ne consegue, poiché la riduzione sequenziale dei prezzi relativi sottende una massiccia redistribuzione di risorse dai beneficiari netti della predazione (politica fiscale) e della contraffazione istituzionale (politica monetaria), ai risparmiatori e produttori originari di reddito sul mercato. Beni di consumo, manodopera, materie prime, macchinari, vengono cosi sottratti al consumo della politica e riassegnati all’economia, aumentando il perimetro della produzione, della contrattazione, della divisione del lavoro. Oltre all’aumento del reddito reale che ciò comporta, la rivalutazione dei risparmi fornisce nuovi fondi agli imprenditori, che possono così riprendere ad accumulare capitale, soddisfacendo ininterrottamente le richieste dei consumatori, previamente silenziate dall’orgia della spesa pubblica.
Come se non bastasse, il consolidamento fiscale allenta la pressione dello Stato sui mercati creditizi, migliorando la qualità del futuro quadro istituzionale. Da un lato questo implica una maggior intermediazione creditizia e minor tassi d’interesse al settore privato; dall’altro, le aspettative di un alleggerimento della pressione fiscale futura stimolano un reinvestimento continuo di capitali nell’industria e nel commercio, elevando la produttività del lavoro e i salari reali. La conclusione della scienza economica è quindi chiara e apodittica: meno lo Stato spende e inflaziona, più alto è il reddito dei contribuenti e maggiore è anche la futura capacità produttiva dell’economia. I risultati di Milei lo mostrano.
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Sebbene sulla scia della stretta fiscale, e in linea con le previsioni del governo, i salari siano diminuiti, da aprile sono aumentati dell’11%, al di sopra del tasso d’inflazione. Il potere d’acquisto dei cittadini, contrariamente a quanto sostengono i megafoni del progressismo internazionale, cresce. Come riporta l’Istituto Nazionale di Statistica e Censimento (Indec), la povertà è scesa nel secondo trimestre dal 54,8% al 51%.
Attualmente, secondo uno studio dell’Universidad Di Tella, è al 48,6%. Analoga la vicenda finanziaria. Il rischio paese l’anno scorso si aggirava sui 2700 punti. Oggi oscilla intorno ai 900, il valore più basso degli ultimi 5 anni, indice che la qualità del quadro istituzionale, agli occhi degli investitori, è notevolmente migliorata. L’inflazione si è mossa in parallelo. A fine dicembre, i prezzi al consumo viaggiavano al 25,5% mensile mentre i dati Indec di settembre riportano un indice del 3,5%. Ancora più netto è l’andamento dei prezzi all'ingrosso, scesi dal 54% al 2% in 10 mesi. Come previsto, il contenimento dell’inflazione ha condotto ad una ripresa dell’attività economica, evidente nell’aumento del credito privato pari al 164%. Ricordiamo che fino ad aprile il credito ipotecario non esisteva in Argentina. Con Milei è tornato.
LA RIPRESA
La ripresa sembra non arrestarsi, anche perché il governo sta iniziando a detassare e deregolamentare, agevolando ulteriormente l’imprenditorialità. L’economista argentino Ricardo Arriazu, ad esempio, stima per il 2025 una crescita del Pil superiore al 5% e un aumento dell’occupazione del 3%, che corrisponde a circa 500mila nuovi posti di lavoro.
Tutto ciò frenerà ancor di più l’inflazione a beneficio dei cittadini. Come evidenzia l’economista Philipp Bagus, autore del best seller Die Ära Milei, quando l’aumento dei prezzi diminuisce o entra in territorio negativo (deflazione) è come se venisse distribuito un dividendo a tutta la popolazione. Un dividendo, però, non egualitario, dove i beneficiari effettivi, essendo l’inflazione la più regressiva delle imposte, sono soprattutto i meno abbienti.
I successi di Milei illustrano ciò che la Scuola Austriaca ha sempre sostenuto: la riduzione della spesa pubblica, correttamente definita da Murray Rothbard come «depredazione governativa del prodotto privato nazionale», è una conditio sine qua non per crescere. Appiattirsi allora sugli effetti a breve termine delle politiche costituisce, come affermò Friedrich von Hayek rivolgendosi a Keynes, non solo «un grave e pericoloso errore intellettuale» ma anche «un tradimento del principale dovere dell'economista» e soprattutto «una seria minaccia alla nostra civiltà». Di questo deve esser consapevole anche la classe politica italiana.
di Bernardo Ferrero
*Ricercatore, Economia Politica Universidad Rey Juan Carlos