Paragone: le star di Hollywood contro le patatine fritte, ecco chi parla ai veri Stati Uniti
Il pop di Kamala profuma di star system, quello di Donald odora di patine fritte. Qual è l’odore più americano? A fare l’elenco delle star che hanno anticipato il loro voto a favore di Kamala Harris pare di stare in una di quelle rassegna dove si premiano attori, attrici e cantanti: una roba da fare girare la testa per i miliardi che generano. C’è Taylor Swift, quella che- dicono- muova pezzi di economia ogni volta che si esibisce; e c’è Eminem, il rapper bianco che ha aperto la strada ai cattivi del freestyle che rimano col microfono a velocità supersonica.
Ovviamente c’è George Clooney, che si espose in prima persona per chiedere a Biden di ritirarsi a favore di Kamala. Ritiro che accadde e che sbloccò le donazioni copiose dello star system. Come quella dell’obamiano doc Bruce Springsteen (che ha corretto la rivista Forbes sul suo patrimonio miliardario: «Magari lo fossi, ho speso tanto in cose futili e soprattutto pago bene la mia band») e dell’ambientalista Leonardo Di Caprio (le cui feste cominciano a essere... chiacchierate dalle parti di Hollywood). Al fianco di Kamala si sono fatti notare Julia Roberts, Beyoncé, i Foo Fighters, Jennifer Lopez, Robert De Niro, Oprah Winfrey, LeBron James e tanti altri. Si tratta del fior fiore dello star system americano, pochissimi esclusi.
Dalla parte di Trump? Poca roba a parte il coreografico Hulk Hogan, il cattivissimo Mike Tyson o l’elegante e leggendario ex quarterback Nfl Tom Brady. Diciamo che la sfida pop non regge. Ma quanto conta questa sfilata di vip? Quanto pesano questi endorsement, emersi proprio mentre l’editore del Washington Post Jeff Bezos negava ai giornalisti di manifestare il posizionamento del giornale (come se la linea editoriale lasciasse dubbi...)? Sono endorsement che generano like e vitalità, ma i voti sono altra cosa.
Il pop di Kamala è snob: profuma di star di grandissimo livello, luccica delle più spettacolari paillettes e suona con le migliori playlist. Il pop di Donald invece è un pop ruvido, che odora di patatine fritte, di catena di montaggio, di sobborghi. È il pop dell’America più profonda e più stressata dai cambiamenti in corso; è il canto dell’America inquieta intercettata da Donald e “musicato” dal suo vice, J.D. Vance, in Elegia americana un autentico libretto di istruzioni per capire cosa sta realmente accadendo.
È lui l’uomo nuovo di queste presidenziali. L’uomo che fa del Make America Great Again qualcosa in più del fiume in piena trumpiano: lo struttura assieme a Tucker Carlson e in un certo senso con Elon Musk. Il Maga diventa adulto, si evolve in una tesi politica, sociale; si disciplina in una narrazione incollata a questa America qui, infilata nei sottotitoli della campagna elettorale. È l’Elegia americana sospesa tra il country e l’hard rock a prendersi la scena. È l’urlo di quel proletariato bianco, springstiniano senza Bruce, oscurato dalle rivendicazioni delle minoranze etniche e dal delirio woke. Non voglio apparire beffardo o ironico, ma c’è una grande differenza se la destra americana si innerva nell’Elegia di Vance mentre quella italiana si scalda col Mondo al Contrario di Vannacci.
Avete ancora qualche ora di tempo per leggerlo o vederlo nella versione cinematografica diretta da Ron Howard: potreste capire molto di più delle inquietudini americani banalizzate dai resoconti del giornalismo italiano impigliato nelle parole dei due sfidanti.