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Donald Trump, lo scandalo per le parole che non ha detto: l'ultima bufala

Corrado Ocone
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Ne vedremo delle belle in questi ultimi giorni di campagna elettorale americana. La posta in palio è tanto grossa che in molti giocheranno sporco. E non certo il solo Donald Trump, il quale può essere facile bersaglio per un suo certo modo di comunicare ma che a ben vedere non è il “cattivo” in una storia ove gli altri invece sono sempre i “buoni”.

Ieri ne è successa una che sa dell’incredibile. Non c’è stato giornale o sito che non abbia diffuso, in una sorta di perverso effetto a catena, una vera e propria fake news messa in circolazione da ben collaudate centrali della disinformazione a tinte progressiste. Durante un comizio a Milwaukee, in Wisconsin, Trump avrebbe addirittura evocato «un plotone d’esecuzione con nove canne di fucile piantate sulla faccia» di Liz Cheney, passata recentemente ai democratici. In verità, Trump ha detto ben altro. Dopo aver osservato che il suo endorsement farà molto male a Kamala perché è una «persona stupida», «un radicale falco di guerra», ha portato uno di quegli esempi comprensibili a tutti che hanno fatto la sua fortuna. «Mettetela in piedi con nove canne puntate che le sparano addosso e vediamo cosa ne pensa quando le armi sono puntate sulla sua faccia». Ed ha aggiunto, quasi a ribadire il suo essere un uomo vicino al popolo: «Sono tutti falchi di guerra quando sono seduti in un bel palazzo a Washington», pronti a dire «oh, dai, mandiamo 10.000 truppe direttamente a casa del nemico». Che è poi il sentimento dell’americano medio.

 

Insomma, una bella bufala montata ad arte quella contro Trump, della serie: «Calunniate pure, qualcosa resterà». Ed infatti il fact checking in questo caso è quasi del tutto mancato, come un rapido giro sul web può dimostrare. La distorsione delle parole era troppo ghiotta per quanti vogliono far passare l’idea che il clima infuocato di questi giorni, fatto anche di insulti personali e diffamazioni, sia una novità di questi tempi “difficili”, tutta da addossare a un Donald Trump che non sa contenersi, che è un mezzo nazista e che sicuramente porterebbe l’America su una china autoritaria qualora uscisse vincitore dalle urne.

Che il candidato repubblicano a volte si tenga in una zona di ambiguità, usando le parole come clava, è fuor di dubbio. Ma certo non era questo il caso. E comunque non si può non tener conto di due elementi per contestualizzare e capire meglio l’uso di un linguaggio crudo da parte sua. Un libro appena uscito per l’editore Rubbettino ci aiuta a individuarli. In Dirty politics, Luca Mencacci ci mostra infatti come quella adottata da Trump sia, possa o no piacere, una strategia comunicativa e che come tale vada giudicata e casomai combattuta. Non solo: Mencacci ci ricorda anche, con una densa carrellata storica che parte addirittura dalle elezioni presidenziali del 1788, che la diffamazione e la disinformazione fanno parte del gioco e sono state ampiamente utilizzate nelle campagne elettorali precedenti dai democratici non meno che dai repubblicani. Nessuno si è sottratto allo “giocare sporco” perché l’importante, un po’ come nel Palio di Siena, è portare a casa il risultato.

 

ESPERIENZE EMOZIONALI
Partendo dal primo elemento, quello che bisogna considerare è che Trump, in questo non troppo dissimile da Obama, sin dalla competizione del 2016 si è proposto di raggiungere il suo elettore offrendogli anche e soprattutto una “esperienza emozionale”. Il suo referente non è però il ricco colto e cosmopolita che abita soprattutto nelle grandi città, ma l’americano medio, che fra l’altro negli ultimi anni si è impoverito ed è diventato rancoroso, che la sera stanco e sfiduciato si butta sul sofà di casa e segue alla tv reality show come The Apprentice o sport fintamente estremi come il wrestling (di entrambi Trump è stato protagonista attivo). In qualche modo per lui la campagna elettorale serve non solo per chiedere il voto al suo potenziale elettore ma anche per offrirgli un momento di complicità, fosse solo anche la condivisione di un insulto verso l’establishment. Il considerare l’avversario politico come il concorrente da eliminare, arrivando fino all’insultarlo, non è bello ed è diseducativo, ma funziona.

PULSIONI E FAKE NEWS
Alcuni considerano un limite della democrazia americana questo suo carattere, già messo in evidenza da Tocqueville, prosaico e in certi casi persino volgare. Ma bisogna considerare anche il rovescio della medaglia: esso permette di dare sfogo a pulsioni che represse e non incanalate potrebbero avere effetti a dir poco nefasti. Forse gli educatori e i moralizzatori dovrebbero lavorare sulle coscienze e non sulla politica, ove di solito hanno sempre combinato un bel po’ di guai! Non meno interessante è il secondo elemento su cui qui si vuol far riflettere, quello delle cosiddette faIce-news o della post-verità, di cui pure si dice che Trump sia maestro, che anzi abbia perla prima volta introdotto. Gli esempi sarebbero tanti, come documenta il libro di Mencacci, ma il senso del nostro discorso è evidente: cari amici benpensanti, siate meno ipocriti ed ammettete che, anche se Trump non vi piace, non si è inventato nulla che già prima non esistesse.

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