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Kim Jong-un e il piano russo: sfida all'Europa, cosa sta succedendo sul fronte ucraino

Fausto Carioti
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La «terza guerra mondiale a pezzi», come la chiama papa Francesco, ha appena fatto un passo avanti verso la guerra mondiale tout court, e la responsabilità principale è di Kim Jong -un, dal 2011 padrone della Corea del Nord. Assieme alla fallimentare strategia di appeasement adottata nei confronti degli ayatollah iraniani, lasciare campo aperto alla dittatura comunista sopra al 38° parallelo è stato l’abbaglio più grande preso dalla Casa Bianca negli ultimi decenni. Stessa sottovalutazione letale: davanti a Pyongyang, come davanti a Teheran, non si è capito il pericolo rappresentato dallo sviluppo degli arsenali nucleari e dei programmi missilistici. Stessa responsabilità politica, che ricade innanzitutto sulle amministrazioni democratiche: di Bill Clinton, ai tempi di Kim Jong-il, padre di Kim, quindi di Barack Obama e di Joe Biden. E stesso beneficiario: in ambedue i casi, i dividendi più grossi li ha incassati Vladimir Putin.

La Corea del Nord partecipa, ormai ufficialmente, all’invasione dell’Ucraina: i suoi soldati sono a pochi chilometri dal confine con la Polonia, che è anche il confine con l’Europa e con la Nato. La presenza dei soldati di Pyongyang in prima linea non è più un’indiscrezione giornalistica o un grido d’allarme del governo di Kiev, che ne ha contati 12.000, dei quali 1.500 appartenenti alle forze speciali. L’ha rivendicata la ministra degli Esteri nordcoreana, Choe Song Hui, incontrando ieri il suo omologo a Mosca: «Saremo sempre fermamente al fianco dei nostri compagni russi fino al giorno della vittoria». L’emissaria di Kim ha anche promesso la «rappresaglia nucleare» su chiunque, in risposta a questa o ad altre scelte, dovesse attaccare il suo Paese. Serghei Lavrov ha confermato che «sono stati stabiliti legami molto stretti tra gli eserciti e i servizi speciali dei due Paesi». Il regime di Pechino, per ora, guarda e non interviene, ma è impossibile credere che una mossa simile da parte di Kim non sia stata avallata da Xi Jinping.

 

È la stessa Corea che ha appena testato con successo un nuovo missile balistico intercontinentale, chiamato Hwasong-19: ha volato per 1.001 chilometri prima di inabissarsi nel mare a est della penisola coreana. Lanciare missili lontano è una cosa, farlo con precisione è cosa diversa e armarli con una testata nucleare è un’altra ancora, ma il test riuscito conferma che il programma va avanti. Senza che da quelle parti ci sia chi lo sorveglia e al momento opportuno colpisce per riportarlo indietro di qualche casella, come fa Israele col programma iraniano. Così Kim ora può annunciare al mondo che «la posizione egemonica raggiunta dalla Corea del Nord nello sviluppo e nella produzione di mezzi nucleari è assolutamente irreversibile». Nel suo arsenale ci sono missili capaci di colpire, in teoria, a 15.000 chilometri di distanza, quindi anche in Europa e Stati Uniti.

Choe e Lavrov, ovviamente, avrebbero potuto parlarsi per telefono, come hanno fatto tante altre volte. Se hanno scelto il grande palcoscenico è perché vogliono spedire un messaggio dall’altra parte del Pacifico: l’ingresso dei militari nordcoreani nel conflitto ucraino, assieme al lancio del missile, è l’umiliazione finale per Biden, dopo che il suo segretario di Stato, Antony Blinken, aveva intimato di non schierare quelle truppe. L’irrilevanza politica e militare degli Stati Uniti nella zona strategicamente più importante del pianeta (Taiwan, con la sua Tsmc, il principale produttore mondiale di chip, è a 1.600 chilometri da Pyongyang) non nasce oggi, ma è il risultato di una lunga serie di fallimenti. Iniziò Clinton con l’«Agreed Framework», l’accordo quadro firmato il 2 novembre del 1994 tra gli Stati Uniti e la Corea del Nord.

Quest’ultima si impegnava a congelare e poi smantellare il proprio programma nucleare in cambio di aiuti energetici e assistenza economica, ma Kim Jong-il si guardò bene dal fare la propria parte. Dopo le tensioni durante l’amministrazione di George W. Bush, che aveva inserito la Corea nel Nord nell’«asse del male» insieme a Iran e Iraq, Obama provò a ritessere il filo del dialogo con la dottrina della «pazienza strategica»: niente contrapposizione frontale, ma nessuna concessione al regime nordcoreano sin quando non avesse fermato davvero il programma di nuclearizzazione.

Una posizione d’attesa, dunque. Alla quale Kim rispose con lanci di missili e quattro test nucleari. Trump scelse invece la strada del confronto diretto, promettendo «fuoco e furia» su Pyongyang se avesse continuato a minacciare l’uso dell’arma nucleare sulle basi statunitensi nel Pacifico. Questo gli permise di diventare il primo presidente degli Stati Uniti ad incontrare un leader nordcoreano, nel 2018, e a mettere piede nella Corea del Nord, nel giugno del 2019. Si salutarono con l’impegno di portare avanti il programma di denuclearizzazione, ma non si rividero più.

La palla passò a Biden, che puntò sul dialogo multilaterale e invitò Kim a riprendere i negoziati. Proposte alle quali il dittatore ha risposto prima col silenzio, e ora schierando i suoi soldati al fianco dei russi. Biden, insomma, raccoglie anche quello che i suoi predecessori hanno seminato. Ma il suo successore, chiunque sia, dovrà ripartire dal punto più basso. Nei rapporti con la Corea del Nord, come in molti altri settori, l’ottantaduenne democratico lascia al futuro commander in chief una situazione molto peggiore di quella che aveva ereditato da Trump quattro anni fa.

 

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