Cerca
Cerca
+

Valencia, città nel fango: il disastro replica quello di 67 anni fa

Claudia Osmetti
  • a
  • a
  • a

Come nel 1957. O forse peggio: ché al netto dalla conta dei morti (67 anni fa sono stati oltre 300, oggi il bilancio arriva a superare i 150, ma è in divenire), è passato più di mezzo secolo e sì, d’accordo, il maltempo mica lo fermi con le mani, però con la giusta prevenzione riesci ad arginarlo. Almeno un po’. Valencia, il giorno dopo.

Che è “dopo” fino a un certo punto, coi soccorritori che sono ancora impegnati a cercare nel fango e i corpi che, purtroppo, affiorano dai garage coperti. C’è perfino il cielo limpido, a tratti, di quell’azzurro tipico delle giornate spagnole che suona come l’ultima sberla in faccia a una città circondata da macerie e carcasse d’auto.

Corsi e ricorsi che, quando di mezzo ci sono disastri inimmaginabili, hanno il retrogusto della polemica e delle sbrodolate di commenti social. Valencia, ancora lei, in quel maledetto 1957, quando il fiume Tùria aveva sfondato gli argini e invaso il centro fino alla Lonja de la seda, la Borsa della seta. Quando in Spagna si erano detti «nunca más» (mai più) e avevano deviato il corso d’acqua, dodici chilometri lontano, ricavando quel serpentone di verde che è diventato uno dei parchi pubblici più grandi del Paese (e anche uno dei più conosciuti del mondo visto che sbuca alla Ciudad de las artes y las ciencias progettata da Calatrava). Un’opera impressionante, che già allora era sembrata mastodontica, ma-come-è possibile-deviare-tutto-il-Tùria?: c’erano voluti sei anni, il nuovo alveo aveva iniziato a scorrere nel 1973, con una capacità di oltre 5mila metri cubi di acqua, ben sopra la soglia dei 3.700 che c’erano prima. Senza quel cantiere di ingegneria idraulica (che tra parentesi è l’uomo che interviene sulla natura) la calamità di oggi sarebbe probabilmente una catastrofe incalcolabile.

 

 

 

Tuttavia risbuca la questione, ed è motivo di scontro, tra chi prende a memento il 1957 per sconfessare il cambiamento climatico (ecco-era-già-successo) e chi usa, invece, la pioggia battente di questi giorni per sostenere l’esatto contrario (che il clima che cambia per colpa nostra aumenti le probabilità delle alluvioni). La verità, forse, sta nel mezzo, perché il riscaldamento globale è una realtà supportata dai dati però l’attività antropica serve anche a prevenirle, le tragedie.

Ma soprattutto, ora, con l’allerta che si sposta verso Barcellona, la verità sta nella disperazione del sindaco di Alfarar, Juan Ramòn Adsuara, che racconta di come alcuni suoi cittadini siano costretti a vivere «coi cadaveri in casa», sta nella determinazione del premier spagnolo Pedro Sànchez che assicura: «Faremo il possibile per trovare i dispersi», sta nelle parole del presidente della regione valenciana Carlos Mazòn che chiede l’intervento dell’esercito con «le truppe terrestri che marittime e aeree».

Mazòn, tra l’altro, prova a difendersi dalle accuse di una gestione della crisi non tempestiva, considerato che l’avviso via sms alla popolazione è arrivato undici ore dopo l’allerta emessa dall’Autorità meteo nazionale (Aemet): «I nostri supervisori hanno seguito il protocollo standard», dice, anche se la stampa comincia a spulciare e salta fuori che mercoledì il consiglio provinciale di Valencia ha mandato a casa i dipendenti intorno alle 14 «per evitare rischi» (per i residenti il cellulare col messaggino delle autorità è trillato intorno alle 20.30).

Dana. Un acronimo (depresion aislada en niveles altos) diventato, in queste ore, parola corrente: l’agricoltura in Andalusia è in ginocchio, dalle prime stime sarebbero almeno 6.200 gli ettari di coltivazione colpiti dalle inondazioni (e dalla grandine), 4.200 quelli delle serre nel mar de plastico di Almerìa (che è tra i più estesi d’Europa); a Valencia crolla un tratto di ponte, le immagini sono tristemente assimilabili a quelle del Morandi, con le auto ferme a un giro di ruota dal baratro; nei paesini intorno alla città sta finendo tutto, dalle scorte all’acqua potabile; sono 39 gli arresti per sciacallaggio nei centri commerciali.

 

 

 

Calzoncini corti, magliette a mezze maniche e stivali di gomma. C’è ancora il fango, c’è ancora la melma, ci sono ancora le macchine accattaste come se fossero dallo sfasciacarrozze, ci sono le persone sconvolte perché chi è fortunato ha perso il lavoro, l’impresa, magari la casa (come Gaetano Marletta, catanese trapiantato a Paiporta, titolare di un’autofficina travolta da quello «tsunami di acqua e fango che è molto più pericoloso della lava»), ma chi se l’è vista peggio ha perso i propri amici, i propri cari, la vita.

Bisogna aspettarsi ancora due giorni di piogge forti, ammoniscono i meteorologi. «L’evento climatico estremo in Spagna evidenzia l’urgenza di aggiornare le mappe di rischio e di implementare interventi di mitigazione mirati, dato l’aumento in intensità e frequenza di tali fenomeni», fa sapere Marco Casini, che è il segretario generale dell’Autorità di bacino distrettuale dell’Appennino. Le bandiere della Commissione europea sono a mezz’asta, gli occhi di tutti rimangono puntati qui. Su questa città metà sommersa e metà con la pala in mano.

Dai blog