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Il mito della stampa Usa e il conformismo di oggi

Corrado Ocone
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Il sostegno ad uno dei candidati all’elezione presidenziale è una vecchia tradizione della stampa americana. Il New York Times, il più importante giornale d’Oltreoceano, nel 1860 si schierò, ad esempio, con Abram Lincoln, dato per sfavorito. E fu forse anche grazie all’appoggio del giornale che colui che avrebbe salvato il Paese dalla secessione risultò vincitore nelle urne. Da questo punto di vista, si può ben dire che il Washington Post, scegliendo questa volta di non schierarsi, abbia rotto una tradizione. In verità, anche se il caso del quotidiano di proprietà del fondatore di Amazon. Jeff Bezos, ha fatto scalpore, anche altri importanti fogli hanno optato per una soluzione di “neutralità”, dal Los Angeles Times a USA Today.
Un tradimento? Non proprio. Basta infatti scendere un po’ nei particolari per rendersi conto che un tempo l’endorsement si inseriva in un diverso contesto, politico e sociale, e soprattutto aveva un altro significato.

La stampa americana era allora davvero prestigiosa e autorevole, un vero e proprio contropotere rispetto a quello politico. La sua forza stava nel rapporto di trasparenza che la legava al suo pubblico, composto per lo più dall’establishment e dalla vasta classe media Wasp (bianca, anglosassone, protestante) che gli faceva da supporto. Il ruolo sociale e la credibilità dei giornalisti e delle redazioni non era messo in dubbio, ed anzi venivano esaltatati in non poche occasioni. La figura del giornalista “eroico” che, per puro spirito di verità e per amore della democrazia, non guarda in faccia nessuno e smaschera i potenti di ogni parte politica è diventata quasi un topos in romanzi e film che hanno fatto il giro del mondo ed hanno alimentato l’immaginario globale. Dichiararsi, in questo contesto, era perciò un problema di correttezza, ovvero di accountability: si trattava di mettere in chiaro le proprie posizioni per giocare a carte scoperte con il lettore, il quale era pure consapevole che esse erano maturate in assoluta autonomia.

 

Era il mito dell’indipendenza del “quarto potere”, i cui due pilastri erano appunto l’“oggettività”, con cui si pretendeva di raccontare i fatti, e l’onestà intellettuale con cui li si interpretavano. Non a caso ho usato il termine di mito. Si trattava infatti di un ideale di giornalismo in qualche modo irraggiungibile, non potendo esistere nella realtà un universo di “fatti separati dalle opinioni”, come recitava lo slogan promozionale di un settimanale italiano (Panorama) che voleva importare il modello anglosassone in un Paese fazioso e diviso come il nostro. Esso funzionava però come un ideale regolativo, un obiettivo verso cui tendere. E come il mito era un generatore di fatti, di elementi che giocavano un loro forte ruolo nella società, nell’opinione comune e nella politica.

Quel mito, come il mondo che lo giustificava, non esiste più. Così come non esiste più l’America sicura di sé, delle sue leggi, della sua cultura, della democrazia. La polarizzazione la fa da padrona. Le linee di frattura che percorrono la società americana sono oggi davvero profonde: nel modo di vivere e nel reddito, nella cultura, in politica. La stampa, lungi dal rifletterle in maniera tendenzialmente imparziale, è scesa nell’agone prendendo, nella stragrande maggioranza dei casi, posizione per una delle forze in campo. Avendo aderito senza spirito critico alla narrazione progressista, i media americani hanno perso contatto con i “fatti” e con la realtà, non riuscendo più né a descrivere ciò che si muove nell’America profonda né ad interpretare correttamente i grandi mutamenti in corso.

I giornali sono ormai apertamente schierati e il loro conformismo lo si vede già nella costruzione della pagina e nella scelta dei titoli. La loro credibilità è ai minimi storici e, per lo più, la diffidenza verso di essi è diffusa e radicata. Può perciò succedere che non essersi “naturalmente” schierati per la candidata democratica sia interpretato non come il tentativo di riconquistare una sia pur minima imparzialità ma come una mancanza di “indipendenza”, in questo caso dal potere economico. Un vero paradosso: sei indipendente solo se ti schieri, e se lo fai per un candidato ben preciso! Un ennesimo cortocircuito progressista su cui varrebbe la pena riflettere. A ben vedere, poco importa se ci siano, come è altamente probabile, interessi concreti da tutelare nella scelta di Bezos. Quel che importa è che oggi, in un regime di perduta credibilità dei giornali, l’endorsement avrebbe avuto un significato del tutto diverso rispetto a quello che aveva in un tempo non troppo lontano.

 

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