L'ultima variante dell'ossessione Lgbt: ci tocca la lana dei montoni gay
Il montone è “gay”, ed è subito moda. Nel senso proprio del fashion e non dell’omosessualità naturale degli animali di cui si fa scienza e dottrina da un bel po’. Basta sfogliare le riviste di moda, e l’ovino omofilo – l’ariete froufrou che in forza di giacconi e gilè approda in copertina – è subito totem. Ed ecco. Se la pizzicagnola bio sotto casa ci faceva già ridere con la storia dei “polli felici” – ossia i polli che dopo una vita nel prato, e non in batteria, finivano comunque in un tramezzino biologico – adesso arriva la lana dei “montoni gay”. Sicché dopo il wellness dei polli, arriva ora lui. L’ariete pederasta – per usare parole desuete or ora tornate in voga in cafonissime chat – che è il principale grossista della rainbow wool. Avete capito: il principale fornitore della lana arcobaleno.
Vanity Fair racconta così – superando in umorismo la pizzicagnola sotto casa – della prima collezione di moda al mondo realizzata in lana di montoni queer. Collezione che contribuirà a finanziare, leggiamo, le attività di Lsdv+, e cioè della federazione Queer Diversity tedesca. E noi che eravamo rimasti al montone – il maschio della pecora – quale ispiratore d’un modo d’amarsi che dalla pecora, appunto, prendeva il nome (anzi il diminutivo)... Noi che pensavamo al suddetto modo d’amarsi quale epitome dell’eterosessualità tossica... Macché! Oggi i montoni à la page – persino loro – sono «gli ovini che non vogliono riprodursi». Gli ovini che di solito «sono considerati privi di valore nell’allevamento industriale e che, quindi» – poverini – «finiscono al macello». Sorte rispetto alla quale una fattoria di Löhne, in Nordreno-Westfalia, s’è opposta strenuamente. Al punto che il fattore Michael Stücke,
membro dell’associazione Gayfarmer, ha radunato venti pecorelli smarriti (o pervertiti) e li ha tosati per mietere lana di tendenza. E ha proposto poi, il suindicato fattore, l’adozione a distanza dei montoni di modo che con le entrate aggiuntive del progetto, spiegava in un’intervista, «si espanda per quanto possibile il gregge così da produrre più rainbow wool per consentire alle persone queer di vivere una vita sicura e paritaria». E vabbè.
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Di tutta questa storia riassunta in un totem – l’ariete frou frou – non si sa cosa sia più angosciante non meno che esilarante. Se la fissazione di estendere un comportamento umano all’animale (che magari non s’accoppia giacché pigro, asessuato, svogliato, come molti di noi, diciamo anche “gay”, ma di certo indifferente ai diritti, al gay pride, alla moda, all’armocromia, a Vanity Fair). Se la fissazione di tosarlo per non mangiarlo (tra l’animalismo e il dirittismo arcobaleno il confine è labile). O se invece l’adozione a distanza delle pecore infeconde (e qui ci vorrebbe davvero l’Anticristo del teologo Solov’ev: dopotutto l’apocalisse è il mondo che si fa pecora). Non si sa cosa sia più grottesco ma il punto, in tutta questa storia, è sempre l’ossessione. È l’arcobalenismo che se non è malattia è sicuramente fissazione (che è peggio della malattia). Ovvero la monomania queer per la quale il queer, appunto, è ovunque: persino in un ovile. E dunque il tema, in questa storia, è l’appropriazione culturale (come la chiamano loro) perla quale pretendiamo che pure le pecore, oggi, salgano sul carro del Pride. E che pure i montoni, domani, si facciano pecore. Col sospetto, ahinoi, che tra il carro bestiame e il carro del Pride il confine sia intangibile. Labile, manco a dirlo, come un arcobaleno.
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