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Khamenei è il nemico: altro attentato contro Israele. E poi è Netanyahu a volere l'escalation...

Giovanni Sallusti
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C’è un metodo infallibile per districarsi nel dibattito nostrano. Se qualcuno utilizza il termine “de-escalation”, è invariabilmente qualcuno che non ha la più pallida idea della posta in gioco nell’inferno mediorientale (e quindi, per immediato traslato, nella contemporaneità). Oppure, peggio, è un tifoso esplicito degli sgozzatori nazi-islamici e di quell’Asse delle canaglie globali che si sta nitidamente allineando contro l’Occidente.

Perché la posta in gioco è quella descritta ieri da Benjamin Netanyahu: «Siamo nel mezzo di una lunga e difficile guerra esistenziale, che ci sta chiedendo un prezzo doloroso. Siamo determinati a continuare la lotta contro coloro che attentano alle nostre vite». L’ultimo attentato era appena andato in scena. Glilot, nord di Tel Aviv: un camion è piombato a folle velocità su una fermata dell’autobus, falciando decine di civili. Il bilancio provvisorio è di un morto e una quarantina di feriti, di cui molti gravi. L’autista del camion (ma usando il linguaggio della realtà, oltre che della polizia israeliana: il terrorista) sarebbe stato ucciso da alcuni civili armati. Come sempre in Medio Oriente, conta anche la simbologia: l’attentato è avvenuto nella seconda giornata di lutto nazionale per i massacri del 7 ottobre. Lo schema dei nemici d’Israele è chiaro: continuare a uccidere ebrei, sempre, il più possibile, se si tratta di vite indifese e tranciate a casaccio meglio. È un pogrom permanente, quello che hanno in mente jihadisti artigianali, squadracce strutturate e i loro dante causa, su su fino alla Cupola del Terrore, retta dall’ayatollah Ali Khamenei. 

 

 

È ciò che intende Netanyahu quando parla di «guerra esistenziale»: una guerra tragicamente asimmetrica in cui una parte contempla come unico obiettivo accettabile militarmente, moralmente e fin confessionalmente (come da Statuto di Hamas, «Israele rimarrà in esistenza finché l'islam non lo ponga nel nulla») la cancellazione dell’altra dal mappamondo. La cancellazione dell’ «entità sionista», come la battezzò da subito l’ayatollah Khomeini, che tra l’altro volle la creazione di Hezbollah all’inizio degli anni ‘80 per minacciare direttamente lo Stato degli ebrei: l’antisemitismo terrorista è la missione originaria di quella congrega di gentiluomini per cui le anime belle nostrane si struggono, indignandosi perché i carri armati israeliani provano a rimuovere il pericolo. Questa minaccia islamista all’esistenza fisica, concreta, quotidiana dell’ebreo in quanto ebreo ha conosciuto un salto di qualità il 7 ottobre scorso, coi bambini messi nei forni accesi, le donne seviziate, le famiglie legate tra loro e bruciate vive. È questa l’unica, autentica, terrificante escalation che ha incendiato (ulteriormente) il Medio Oriente, un’escalation che Israele non può negare nemmeno se volesse, perché il nemico la ribadisce costantemente, l’ultima volta, poche settimane fa, con la massima autorevolezza possibile. Quella di Khamenei che, guidando la preghiera islamica del venerdì con di fianco in bella vista un fucile, rivendicava espressamente il macello del 7 ottobre, addirittura legandolo al «diritto internazionale» (ci fosse un pacifinto di casa nostra che abbia notato la bestialità logica e morale), e confermava l’obiettivo di ogni buon credente in Allah: la «rimozione della vergognosa esistenza di Israele».

 

 

La Piovra che lo Stato ebraico si trova di fronte (testa a Teheran e molte braccia su quei “sette fronti” di cui parla Netanyahu) mira all’apocalisse antisemita, e lo dichiara senza infingimenti. Un corteo pacifista con i piedi, e l’intelletto, piantati nella realtà, dovrebbe recare come slogan qualcosa come “fermiamo Khamenei”, “fermiamo l’Asse del Terrore”, “fermiamo il nuovo nazismo”. Sabato, invece, la cagnara pacifinta andata in scena nelle principali città italiane ululava: «Fermiamo le guerre». Così, indistintamente: la guerra di offesa e quella di difesa, la guerra come terrorismo casa per casa e quella come lotta di sopravvivenza, la guerra come jihad antiebraica e antioccidentale e la guerra come trincea della libertà. Uno slogan beota in cui si è riconosciuto l’intero “progressismo” (ormai, in quest’attualità pazzotica, un sinonimo di oscurantismo) italiano, dal Pd ad Alleanza Verdi-Sinistra alla Cgil ai gruppuscoli proPal assortiti. È l’ escalation del non-senso, da cui qualunque uomo libero non può che chiamarsi fuori.

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