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Donald Trump, un uragano al Madison Square Garden: la serata che può cambiare il voto

Dario Mazzocchi
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Le luci, la musica, il boato dei tifosi assiepati sulle tribune. Le vibrazioni che attraversano il corpo per lo spettacolo che va in scena. L’idea stessa di essere seduti in un posto che richiama la storia dello sport e dello spettacolo, che poi negli Stati Uniti vanno davvero a braccetto, in un modo di concepire il tempo libero che è ben diverso da quello si può avere nella Vecchia Europa che pure prova a replicarlo, ma alla fine non è stessa storia. E lo spettacolo che contagia la politica e la trasforma nello showtime che non risparmia niente a nessuno, specie quando mancano meno di due settimane all’evento dell’anno che inciderà su tutto il resto, in un effetto domino che riguarderà la diplomazia, l’economia e gli equilibri geopolitici: le Presidenziali americane. Tutta questa faccenda passa anche per il Madison Square Garden.

Il Madison Square Garden – o The Garden, tanto si capisce subito cos’è – è l’arena newyorkese che sorge accanto, anzi sopra, una roba unica con Penn Station, la stazione ferroviaria cruciale della Grande Mela, il centro di transito più trafficato nel mondo occidentale. Definirlo stadio è riduttivo, specie dopo l’evento che è andato in scena nella notte italiana tra domenica e lunedì: il comizio del candidato repubblicano alla Casa Bianca, Donald Trump, che torna nella sua New York, dove sorge la sua torre, dove ha costruito il suo impero, dove è finito alla sbarra con l’accusa di aver pagato una pornostar perché tacesse su una loro relazione sessuale. Il processo che nelle speranze degli avversari avrebbe dovuto lasciarlo fuori definitivamente dall’agone ed invece eccoci qui, con un clima di attesa pompato dai sondaggi che lo danno testa a testa con la rivale democratica Kamala Harris: l’altra speranza coltivata dalla sfera progressista che però sembra svanire quando i due sono proprio in dirittura d’arrivo. Chi lo sa? It’s showtime. È come se il popolo MAGA, Make America Great Again, sapesse che questa è un’occasione imperdibile, un boost di energia per la volata finale. The Donald a casa sua, che dai cartelloni fuori del Garden indossa il cappellino da baseball e punta l’indice come faceva lo Zio Sam quando era il momento di arruolarsi: I want you!

E i suoi hanno risposto, mettendosi in coda già dalla sera di sabato. Prima in duemila, poi in diecimila ad attendere l’apertura dei cancelli per garantirsi un posto dentro. Il Madison Squadre Garden può contenerne fino a 20.000. C’è chi ha pure prenotato una stanza in albergo perché viene da fuori città, eppure ha deciso che era meglio aspettare all’aperto, assieme agli altri. Cappellini e felpe rosse, si riconosco così. Siamo in una parte degli USA dove il vincitore della notte elettorale è già scritto e porta il nome della Harris, ma stavolta uno dei simboli della città è loro. Il Garden negli ultimi anni è diventato un soggetto ingombrante, come Trump insomma. Occorre infatti mettere mano a Penn Station e potenziarla, allargala, ammodernarla. Il problema è che per intervenire occorre spostare da lì il MSG. Nel settembre 2023 il Comune di New York ha votato per rinnovare il permesso operativo per cinque anni: è la concessione più breve nella storia dell’impianto, che appartiene James Dolan, proprietario dei Knicks e dei Rangers. I primi giocano a basket, i secondi a hockey, entrambi giocano – ovviamente- al Garden. I Knicks. Il loro ultimo campionato NBA vinto risale al 1973 e da allora, a ondate, sono destinati a ripetersi e mancano sempre l’occasione, per un motivo o per l’altro: per esempio perché negli Anni ’90, quando avevano un quintetto di tutto rispetto (Patrick Ewing, John Starks, Charles Oakley per dire) c’erano i Bulls di Michael Jordan che ha messo sulla mappa mondiale Chicago, la patria degli Obama che sono tornati a dare una mano alla Harris in apnea.

 

 

Le campagne elettorali americane non sono per cuori deboli e schizzinosi: con quello che c’è in palio non dovrebbe nemmeno sorprendere e poi, appunto, è showtime. A questa tornata i toni stanno raggiungendo vette nuove che segneranno un precedente e pure i Democratici stanno smarrendo la compostezza che hanno voluto trasmettere negli ultimi quattro anni per marcare la differenza dal trumpismo e ciò che ingloba. Trump è instabile, è pericoloso, si profila un pericoloso fascista. Frasi che prima sussurravano e che adesso pronunciano fuori dai denti. Sono arrivate come manna del cielo le rivelazioni di John Kelly, ex capo dello staff alla Casa Bianca durante il mandato del repubblicano, che ha svelato come in alcune occasioni Trump avrebbe espresso ammirazione per Hitler. Il fatto che nel 1939 il vecchio Garden abbia ospitato un evento filonazista, con tanto di svastiche e saluti a braccia tese, ha fatto il resto. Se è per quello la storia racconta anche di Grover Cleveland, democratico newyorkese, l’unico presidente – al momento ad aver servito per due mandati non consecutivi, che con un discorso tenuto al Garden nel 1892 accettò la nomina del partito prima di rimettere piede nello Studio Ovale. Curioso, vero? Le luci, la musica, il boato della folla che aspetta di vedere il beniamino palesarsi sul palco per aprire l’ultimo round di una lotta corpo a corpo, come sul ring di un incontro di wrestling, che è tra gli sport preferiti da Trump e che al Madison Square Garden è di casa. Da qui al 5 novembre senza esclusioni di colpi, finché non suona la campana.

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