Francesca Albanese? Smentiva il 7 Ottobre, ora sale in cattedra
Cosa si pensi di Israele nel Palazzo di vetro dell’Onu lo si sa da tempo. Almeno dal 16 maggio 1967, quando il presidente egiziano Nasser chiese il ritiro immediato dei 3.400 Caschi Blu della missione Unef dal Sinai e da Sharm el-Sheikh, dove garantivano l’accesso delle navi al porto di Eilat. Era una dichiarazione di guerra a Israele. Il segretario dell’Onu, il birmano U Thant, obbedì al rais senza negoziare: i Caschi Blu se ne andarono subito. Ponendo le basi per la Guerra dei sei giorni, che scoppiò subito dopo.
L’italiana Francesca Albanese, relatrice speciale dell’Onu sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi, fa insomma parte di una lunga tradizione.
Lo stesso non si può dire per l’università di Georgetown, dove Albanese è stata invitata a tenere una conferenza il 28 ottobre. Titolo: «Anatomia del genocidio in Gaza». Azzeccatissimo, perché «Anatomia di un genocidio» è scritto sulla copertina del rapporto firmato da Albanese a marzo e «genocidio» è il termine col quale l’inviata dell’Onu definisce, dall’inizio, l’operazione che ha portato all’uccisione dei capi delle organizzazioni terroristiche Hamas ed Hezbollah, ultimo dei quali Yahya Sinwar, il «macellaio di Khan Younis».
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Per capire cosa significa la sua presenza lì: Georgetown è la più antica università cattolica (gesuita) degli Stati Uniti, fondata nel 1789 a Washington D.C. Qui, nel 1968, si laureò Bill Clinton. Qui, alla prestigiosissima School of foreign service, ha studiato l’attuale re di Spagna, Felipe VI, e hanno insegnato l’ex segretaria di Stato Madeleine Albright, l’ex direttore della Cia George Tenet e la prima ambasciatrice degli Stati Uniti presso l’Onu, la reaganiana Jeane Kirkpatrick. A spiegare la politica estera e la Guerra fredda provvedeva, come «professor of Diplomacy», Henry Kissinger, segretario di Stato e consigliere per la sicurezza nazionale sotto Richard Nixon e Gerald Ford.
IDOLO DI BOLDRINI E FRATOIANNI
Un’università vicina ai liberal democratici, dunque, ma aperta alle contaminazioni. E adesso, appunto, dalle lezioni di Kissinger sono passati a quelle di Albanese. La fama di questa giurista irpina classe 1977, che Laura Boldrini, Susanna Camusso e Nicola Fratoianni definiscono «una professionista indipendente di riconosciuta esperienza in materia di diritti umani», è cresciuta dopo i massacri del 7 ottobre. Iniziò quel giorno stesso, spiegando che «la violenza odierna deve essere contestualizzata» da «quasi sei decenni di governo militare ostile su un’intera popolazione civile».
Non ha smesso da allora. Quattro giorni dopo avvertiva che le violenze sessuali e altri crimini compiuti nel massacro potevano essere una montatura occidentale: «Attenzione! Circolano numerose affermazioni, ripetute da funzionari statunitensi e amplificate dai media tradizionali, sui crimini di Hamas, tra cui decapitazioni e stupri...».
Lei è quella che lo scorso febbraio, in risposta polemica al presidente francese Emmanuel Macron, ha scritto sul web: «Le vittime del 7 ottobre non sono state uccise a causa del loro giudaismo, ma in risposta all’oppressione di Israele». Parole che le sono costate anche la condanna del ministero degli Esteri tedesco: «Giustificare gli orribili attacchi terroristici del 7 ottobre e negare la loro natura antisemita è spaventoso. Fare simili dichiarazioni in rappresentanza dell’Onu è una vergogna». Mai, a Berlino, hanno usato parole così dure nei confronti di un rappresentante delle Nazioni unite.
Imitati a luglio dall’amministrazione del democratico Joe Biden, quando Albanese ha paragonato Netanyahu a Hitler. «Non c’è posto per l’antisemitismo da parte di funzionari dell’Onu incaricati di promuovere i diritti umani. Anche se gli Stati Uniti non hanno mai sostenuto il mandato di Francesca Albanese, è chiaro che non è adeguata a questa o a qualsiasi posizione all’Onu», ha detto Linda Thomas-Greenfield, ambasciatrice degli Usa alle Nazioni Unite.
L’ultima scomunica, dopo le ennesime «dichiarazioni inaccettabili della signora Francesca Albanese», è di pochi giorni fa, firmata dalla rappresentanza diplomatica francese presso la sede Onu di Ginevra: «Il Consiglio dei diritti umani deve trarre tutte le conseguenze dal mancato rispetto delle regole minime di etica e deontologia del sistema delle Nazioni Unite».
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Chi segue le vicende mediorientali già conosceva la pasta di cui è fatta colei che l’Onu, nel maggio del 2022, ha chiamato a coprire uno degli incarichi più delicati, dopo averla avuta come esperta per la Unrwa e l’Alto commissariato per i diritti umani. Il 28 novembre di quell’anno, nella sua nuova veste, Albanese partecipò ad una conferenza organizzata da Hamas a Gaza, e lì, come ha raccontato il Jerusalem Post, disse alla platea compiacente: «Avete il diritto di resistere a questa occupazione... Un’occupazione richiede violenza e genera violenza». Si è poi scoperto che nel 2014, in una lettera aperta pubblicata su Facebook, aveva scritto che l’America è «soggiogata dalla lobby ebraica».
Un’espressione che le piace, perché la usò anche contro la Bbc, colpevole di non raccontare le vicende di Gaza come avrebbe voluto lei: «La lobby israeliana è chiaramente dentro alle vostre vene e al vostro sistema».
ECCO I PETRODOLLARI
Concetti che tra pochi giorni avrà modo di ripetere in uno dei templi in cui viene formata la futura classe dirigente statunitense e occidentale. L’invito a Georgetown per lei è un ritorno: lì aveva avuto una borsa di studio, presso l’Istituto per lo studio delle migrazioni internazionali, uno degli “allevamenti” dei futuri funzionari Onu. Ma il motivo vero per cui sarà lì è un altro. Le otto «conferenze fondamentali incentrate sul genocidio in corso a Gaza» (così le definisce il sito dell’università) sono organizzate da un gruppo di istituzioni. Una è l’Alwaleed Center for Muslim-Christian Understanding, che ha sede a Georgetown e porta il nome del principe saudita che nel 2005 l’ha finanziato con un assegno da 20 milioni di euro. Un’altra è il Centro per gli studi arabi contemporanei, finanziato da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar e altri Stati della regione. E tra gli organizzatori c’è pure la Georgetown University Qatar, la filiale di Georgetown a Doha.
La Fondazione per la difesa delle democrazie, un think tank con sede a Washington, fa sapere che la Georgetown University, dal solo Qatar, ha ricevuto oltre 870 milioni di dollari in donazioni e contratti, dal 2005 a oggi. Accade anche in altri atenei degli Stati Uniti, ovviamente. E questo spiega la presenza di Albanese, le conferenze sul «genocidio» e molte altre cose. La lobby c’è, è ricca, forte ed influente, ma non è esattamente quella ebraica.