Usa, sinistra ebraica tende la mano ai fondamentalisti? Ora è in grossa difficoltà
C’ è un’assenza che pesa nel dibattito intorno alla strage del 7 ottobre. È un’assenza che segna un disagio, una difficoltà, forse un fallimento. Ad essere assente è l’intellettuale progressista liberal americano di origine o cultura ebraica, tanto presente in passato da incarnare una sorta di idealtipo, cioè di figura-modello. Cosmopolita, dalla mente aperta, raffinato, abitante per lo più nelle metropoli, soprattutto a New York, questo intellettuale ha ispirato film, racconti, serie tv.
Ed ha generato anche non pochi luoghi comuni. I quali, come è noto, spesso esprimono una realtà di fatto. Una cosa è infatti certa: la cultura ebraica ha dato il tono, nel secondo Novecento e fino ai giorni nostri, a molta parte della vita intellettuale d’Oltreoceano, alimentata in modo sostanziale dalla diaspora che seguì all’avvento del nazionalsocialismo nel cuore d’Europa. Questa cultura, nonostante l’influenza anche di figure indubbiamente tradizionaliste come quella di Leo Strauss, si orientò da subito in buona parte a sinistra, mostrando spesso la capacità di andare oltre gli stereotipi del vecchio marxismo (un nome per tutti: Hannah Arendt).
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Una vena libertaria attraversò riviste prestigiose come Politics o Dissent, dominate dalla sinistra ebraica. O anche come il rotocalco New Yorker, che diventò una sorta di Bibbia del progressismo colto. Un contributo determinante la componente ebraica dette anche alla cosiddetta New Left che, ponendo al centro della rivendicazione i diritti civili, accompagnò la nascita dei movimenti, per lo più libertari, che dettero vita al Sessantotto americano. Michael Walzer ne fu probabilmente l’esponente più in vista. In questo brodo di coltura fece i primi passi il politically correct, che in quei primi anni era molto meno estremista di quel che sarebbe diventato. Esso tuttavia già coltivava l’odio per l’America, a cui contestava la guerra nel Vietnam e in genere la volontà imperialista verso gli altri Stati. E già si sceglieva in giro per il mondo poco raccomandabili compagni di viaggio, di cui ideologicamente giustificava ogni misfatto. Il tutto avveniva però con il tono leggero e la scanzonata superficialità dei miliardari che frequentavano salotti radical chic come quello del direttore d’orchestra Leonard Bernstein, satiricamente immortalato dalla penna di Tom Wolfe nel 1970. Poi tutto degenerò, divenne estremo e radicale: il femminismo cedette il passo ai movimenti queer, lo spirito critico verso il passato diventò cancel culture, la critica all’America diventò tout court la critica alla nostra civiltà e alla nostra stessa cultura.
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Le accademie e i campus, i luoghi della formazione delle classi dirigenti americane, avviarono il processo, che si estese poi in una parte rilevante della società. Ed anche in questo caso l’intellettualità ebraica fu all’avanguardia. Si pensi solo al caso della prima teorica del queer, Judith Butler, la cui famiglia materna era stata annientata nell’Olocausto. A dominare la cultura americana, svolgendo il ruolo che un tempo era stato del pragmatismo, fu, a partire dagli anni Ottanta, il cosiddetto decostruzionismo, un pensiero che si riprometteva di smascherare tutti i presupposti “razzisti”, “xenofobi”, “violenti”, “fallocratici”, che sono caratteristici, a suo dire, della nostra cultura e inficiando il nostro stesso modo di pensare e il nostro linguaggio. Il primo teorico della decostruzione, che viene anche conosciuta come “French Theory”, fu l’ebreo francese Jacques Derrida che nei campus americani ebbe una fortuna che non gli era arrisa in Europa. Si dice, fra l’altro, che nel decostruire ogni concetto o parola egli abbia tratto ispirazione dall’acribia dei vecchi maestri talmudici che egli aveva studiato in gioventù.
Comunque sia, l’avanzare delle teorie terzomondiste, della critical race, delle culture “altre”, è proseguita fino ad arrivare ai giorni nostri, quando nelle università alla presunta intolleranza della cultura classica occidentale si è poco alla volta sostituita la vera intolleranza degli islamisti e degli antisemiti. Dalla “liberazione dei palestinesi” all’annientamento di Israele, il passo è stato breve. Quanto al silenzio di cui si diceva, certa intellettualità ebraica progressista si rende forse conto oggi di aver svolto il ruolo dell’apprendista stregone, mettendo in moto le forze che vorrebbero seppellirla. Essa si è allontanata dal più profondo sentire popolare dei propri fratelli. Da qui l’imbarazzo di questi mesi. E la frattura profonda che, secondo il New York Times ed altri media, il 7 ottobre ha generato nella sinistra americana.
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