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Cina, serve una Nato economica per combattere Pechino

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Marco Respinti
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Altro che smantellare la Nato: va rafforzata, che è il modo migliore per metterla al passo con i tempi. Lo sa persino Donald Trump, dato come picconatore e in realtà suo potenziatore. Lo disse di comune accordo con Jens Stoltenberg, nientemeno che l’allora Segretario Generale della Nato, nella famosa conferenza stampa congiunta del 12 aprile 2017. Ammise il ripensamento: «Dissi che era obsoleta; non è più obsoleta», ha combattuto il comunismo, oggi combatte il terrorismo. «Il Segretario Generale e io», spiegò Trump meno di tre mesi dopo l’insediamento alla Casa Bianca, «siamo d’accordo sul fatto che gli altri Paesi membri debbono assumersi la responsabilità di contribuire alla difesa con il 2% del PIL. Se gli altri Paesi faranno la propria parte, invece di affidarsi agli Stati Uniti per colmare la differenza, saremo tutti molto più sicuri e la nostra unione sarà molto più forte». Limpido. Tra l’altro ce n’è più bisogno oggi di sette anni fa.

Lo afferma l’ambasciatore degli Stati Uniti in Giappone, Rahm Emanuel, su The Wall Street Journal di martedì 8 ottobre, indomani del Sette Ottobre, forse nuovo Undici Settembre, invocando una “Nato dell’economia” per scendere sul campo di battaglia dove la Repubblica Popolare Cinese è forte e batterla. Pechino tiranneggia i rivali con il boicottaggio, il protezionismo, le restrizioni sull’export e la trappola dell’indebitamento estero per strangolare i più fragili e planetarizzare le meccaniche dello «Stato servile» che lo scrittore anglo-francese Hilaire Belloc denunciò nel 1912. La Cina rossa, spiega Emanuel, ritiene di avere diritto a imporsi solo perché ne ha la forza fisica, ma nell’area indo-pacifica le minacce militari e le intimidazioni economiche hanno prodotto piuttosto l’effetto inverso. Le alleanze regionali e internazionali hanno infatti isolato la Cina: da ultimo le rinnovate partnership siglate nel solo anno scorso fra Stati Uniti, Giappone e Corea del Sud da un lato, dall’altro fra Stati Uniti, Giappone e Filippine. Ma si può fare molto di più, incalza l’ambasciatore, segno che troppi Paesi non fanno abbastanza per respingere l’abbraccio mortale del renminbi cinese. Per esempio si può seguire l’esempio dell’Australia e della Lituania.

 


Non da oggi il fiato pesante di Pechino si fa sentire su Canberra, ma dal 2020 è diventato irrespirabile, quando il governo australiano osò chiedere un’indagine indipendente sulle origini del Covid-19. La ritorsione di Pechino lordò di dazi le merci provenienti dall’Australia, soprattutto carbone, manzo, orzo e vino, ma Canberra rispose subito cambiando mercato e costringendo presto la Cina al dietrofront. La manovra, sottolinea Emanuel, riuscì grazie alle alleanze già in essere con diversi partner anti-cinesi di area. Lo stesso fece poco dopo Vilnius, penalizzata da Pechino nel 2021 per avere permesso l’apertura di un Ufficio per il commercio di Taiwan. La reazione produsse persino lo Strumento Anti-Coercizione, adottato il 27 dicembre 2023 dall’Unione Europea per garantire la sicurezza economica degli Stati membri. La soluzione insomma, prospetta Emanuel, è quella proposta da Aaron Friedberg, scienziato della politica nell’Università di Princeton: solo «una coalizione a difesa del commercio» può «ridurre l’esposizione dei suoi sottoscrittori alla Cina». Ma questa, «per essere efficace», necessita dell’«equivalente economico dell’articolo 5 dell’Organizzazione del Trattato dell'Atlantico del Nord: se uno viene attaccato, vengono attaccati tutti».

Il modello è George F. Kennan, il maestro della contromossa nella Guerra fredda che chiuse l’espansionismo sovietico in una gabbia di contenimento internazionale. L’International Emergency Economic Powers Act, che dal 1977 consente agli Stati Uniti di agire contro le minacce esterne, può, aggiunge Emanuel, essere opportunamente adattato e il Fondo Monetario Internazionale deve rivedere i prestiti alla “coalizione di volenterosi” contro il totalitarismo cinese. Ma l’aspetto più importante, chiude l’ambasciatore, è che «noi», cioè gli Stati Uniti, «possiamo fornire agli alleati e agli amici nel mondo in via di sviluppo la guida economica necessaria a tempi come questi». Il fatto che l’ambasciatore del Paese più importante del mondo in uno dei Paesi alleati più importanti del mondo si esprima così sul quotidiano economico più importante del mondo, letto da tutti e certamente non di sinistra, è come una foglia di Lórien: non cade a caso, soprattutto a meno di un mese dalle elezioni per la Casa Bianca.

 

 

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