Vladimir Putin, la bomba e la tentazione di vincere fino alla morte
Con l’annuncio di Vladimir Putin che la Russia userà l’arma atomica in risposta ad atti ostili dell’Occidente, si può dire che un’epoca della storia sia finita anche simbolicamente. La Bomba era stata infatti il più forte elemento di deterrenza esistente all’epoca della divisione del mondo in due blocchi contrapposti per politiche, ideologie, benessere dei cittadini, modelli di vita. Con la fine dell’Unione Sovietica si era poi sperato che una pax occidentalis, se non proprio americana, avrebbe potuto finalmente garantire a tutti stabilità, benessere, democrazia. Era una rivisitazione della classica utopia, per molti aspetti inquietante, dello Stato unico ed omogeneo, a cui, subito dopo la guerra, aveva ridato lustro un filosofo e diplomatico francese di origine russa: Alexandre Kojève.
Un tardo hegeliano come Kojève era anche quel sociologo americano di origine giapponese, Francis Fukuyama, autore del fortunato libro La fine della storia (a dire il vero più noto che conosciuto). In esso, eravamo nel 1992, sembrava prefigurarsi un mondo unificato, almeno in linea di principio, dal paradigma liberale. Così non è stato ed il ritorno della minaccia nucleare suggella l’avvento del nuovo mondo post-globale: multipolare, diviso in grandi macroregioni a carattere imperiale, con l’Occidente assediato da autocrazie di ogni tipo.
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Può sembrare un paradosso il fatto che proprio la minaccia di una reciproca distruzione avesse salvato il mondo, in tutto il periodo della “guerra fredda”, da un possibile ritorno, su larga scala, delle Hiroshima e delle Nagasaki con cui si era concluso il recente conflitto. Ma che il procedere storico sia lineare possono pensarlo solo delle “anime belle”. Al contrario: molte delle cose che accadono sono controintuitive e ben si può dire, con gli antichi romani, che per ottenere la pace occorre spesso preparare la guerra. Gli elementi della pace e della guerra sono da sempre commisti nell’umanità, così come quelli del bene e del male.
Pensare il contrario è peggio di un errore, è un “crimine”. Proprio per questa inestirpabile coesistenza nell’uomo degli elementi contrari, il passato non lo si può considerare semplicemente come una età “oscura” che si può cancellare con un tratto di penna (come vorrebbe la cancel culture). Così non è: l’uomo è strutturalmente un “legno storto” e come tale non può che errare e apprendere dai suoi errori, in un continuo perfezionamento che non può mai raggiungere uno stato finale di assoluta e perfezione.
Subito dopo la guerra il dibattito sulla Bomba ferveva fra politici, intellettuali, artisti di ogni tipo. E non poche erano le “anime belle” anche nell’opinione pubblica, fra la gente comune. Con un abile lavoro di propaganda e mistificazione, l’Unione Sovietica riuscì a strumentalizzare i “buoni sentimenti” di tanti presentandosi come una civiltà di pace in confronto all’Occidente guerrafondaio, dominato dagli Stati Uniti e dai suoi istinti atavici di oppressione ed espansione imperialistica.
Fu così che nacque il “Movimento dei Partigiani della Pace”, dalla Russia ampiamente foraggiato e di cui Pablo Picasso disegnò il simbolo: un’aquila che vola libera in un cielo chiarissimo che certo non poteva essere, come pure si suggeriva, quello d’Oltrecortina. Più accorta fu l’analisi di quegli scienziati e filosofi, come Albert Einstein e Bertand Russell, che pure si impegnarono nella battaglia contro il proliferare delle armi nucleari, scrivendo lettere ai leader mondiali o lanciando appelli. In Italia particolarmente attivo, ma anch’esso tutto sommato “ingenuo” e politicamente strabico, fu il “movimento non violento” che faceva capo ad un antifascista e resistente come Aldo Capitini.
Ispirandosi a Gandhi, il suo pensiero assunse presto toni e stilemi di tipo religioso. Fu lui ad organizzare, nel 1961, la prima “Marcia per la pace e la fratellanza dei popoli”, che ancora oggi si snoda ogni anno da Perugia ad Assisi. Quanto ai cattolici, essi non hanno fatto che il loro mestiere: il loro “pacifismo” è quasi naturale da un punto di vista morale, pur se poi la Chiesa, come istituzione temporale, ha elaborato nel tempo una dottrina della “guerra giusta”.
Più interessante, e anche profondamente attuale, fu però la riflessione che maturò in Occidente in ambito più strettamente filosofico. Da questo punto di vista, il dibattito si concentrò su due punti: la Tecnica e l’Uomo. La domanda che ci si poneva era in sostanza questa: se con la Bomba l’umanità può autodistruggersi, chi è mai o cosa è diventato quell’ente finito che può compiere all’incontrario l’opera del Creatore? Cosa è allora propriamente l’umanismo, ovvero è possibile un “nuovo umanesimo”?
Su posizioni diverse intervennero nel dibattito grandi filosofi di opposto orientamento come Jean Paul Sartre e Martin Heidegger. Fino a che un pensatore della diaspora ebraica in America, già marito di Hannah Arendt, si pose la domanda più di tutti inquietante: non è che forse L’uomo è antiquato (è il titolo del suo capolavoro del 1956)? È come se, infatti, egli non riuscisse più a stare al passo, a controllare, gli strumenti tecnici che lui stesso ha creato?
Libro particolarmente attuale oggi che l’umanità è in grado non solo di autodistruggersi ma anche di autotrasformarsi (agendo ad esempio sul corredo del suo stesso patrimonio genetico). Che l’epoca post-umanistica sia un’età di morte e di illibertà, è un destino a cui non possiamo adeguarci. Aiutare Zelenski a difendersi è forse il minimo che possiamo fare.
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