Ucraina, bombe e dimissioni: perché Kiev ora può crollare
La coalizione internazionale a sostegno dell’Ucraina c’è ancora, la coesione nazionale no. Almeno quella governativa. Le contraddizioni del Paese e nella conduzione della guerra emergono con gli allarmanti scricchiolii della raffica di dimissioni dall’esecutivo dimezzato di Volodymyr Zelensky, più inquietanti ancora del tiro a bersaglio russo su Poltava e Leopoli. L’addio del ministro degli Esteri Dmytro Kuleba, che segue quello di nove titolari di dicastero con qualche siluramento, ha spalancato le porte al rimpasto per sigillare al più presto una crepa interna in un momento delicato del conflitto che si trascina da trenta mesi senza che si intraveda uno spiraglio per una soluzione diplomatica.
L’Ucraina fatica a contenere la pressione dell’esercito di Putin in Donbass ma è all’attacco nella zona di Kursk, ha ottenuto le moderne armi occidentali per riequilibrare lo strapotere russo in chiave difensiva ma non le può usare in fase offensiva, ha creduto di mettere paura al Cremlino portandogli la guerra in casa ma sta subendo i colpi d’artiglio dell’Orso russo, reclama solidarietà e aiuti dalla Nato per mantenere un esercito compatto ma non riesce a tenere insieme una squadra di governo, ed è pure incollata attorno al concetto di unità nazionale facendo a meno delle elezioni.
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IL MEDIATORE SE NE VA
In tandem con l’icona del presidente in mimetica verde, Kuleba era il volto esportato in Europa, il mediatore che doveva chiedere senza piegarsi e spiegare senza chiedere l’elemosina. All’improvviso ha gettato la spugna con un’asettica lettera di dimissioni, forse solo per cambiare ring senza cambiare partita, visto che di lui si dice che sarà inviato come ambasciatore a Bruxelles, vicino alla stanza dei bottoni dell’Unione Europea e della Nato, che è poi quel che più interessa Kiev.
Ma il contraccolpo dello sgranamento del governo sarà difficile da assorbire, perché se i ricambi ai vertici delle tre armi ci possono stare, in base ai segnali provenienti dai campi di battaglia, un rimpasto con questa tempistica e così vasto un po’ meno. Il ministro degli Esteri, la storia insegna, si cambia preliminarmente a un eventuale conflitto, mai in corso: Molotov venne nominato da Stalin al posto di Litvinov per segnare un cambio di rotta e così Ribbentrop da Hitler per discontinuità con Neurath, Zelensky, che arriva dal mondo dello spettacolo, sa perfettamente che i cambi di scena vanno preparati e non improvvisati dal regista.
Lo sconcerto in occidente fa da contraltare all’acre sarcasmo del Cremlino, che attraverso la solitamente sardonica portavoce Maria Zakharova ha parlato di caduta delle foglie che lasciano a nudo il ramo. Con nessuna conseguenza su eventuali trattative negoziali. L’immagine è efficace ed evocativa ma rientra nella propaganda putiniana, che ha mostrato i muscoli con i sanguinosi raid dal cielo su Poltava e Leopoli, esemplificando che la guerra non si combatte più solo attorno alle trincee terrestri ma anche a centinaia di chilometri all’interno.
NULLA DI NUOVO AL FRONTE
Nulla di nuovo sul fronte orientale se non la dimostrazione che i russi sanno pazientare, che il numero dei caduti non interessa più di tanto, che l’economia di guerra può soppiantare le perdite e reintegrare le armi di offesa, per difendersi dalle quali l’Ucraina è invece costretta a pietire aiuti e a subire limitazioni pesanti sul loro impiego. Si fa e si dice, ma ci si volta dall’altra parte simulando di avere le mani nette per evitare quel coinvolgimento diretto che a Kiev farebbe tanto comodo per non reggere da sola il fardello dell’impegno militare, inaccettabile però da politici, strateghi e opinione pubblica occidentale. Zelensky qualche spiegazione la dovrà dare eccome, all’interno e all’esterno, anche perché le elezioni americane incombono e le variabili uscite dalle urne potrebbero sconvolgere ogni equilibrio.
L’offensiva verso Kursk ha sì rigalvanizzato un esercito costretto solo a difendere e a difendersi, ma non ha un obiettivo strategico e neppure il fiato lungo, poiché il fronte caldo è nel Donbass dove le cose vanno maluccio negli scontri d’attrito. Pensare che il quadro internazionale possa dare una mano all’Ucraina più di quello che accade con la fornitura di armi, significa peccare di realismo.
LE MOSSE DELLO ZAR
Putin non è malato e non è morto come si diceva dopo lo scoppio del conflitto, la Russia si è fatta un baffo a torciglione dei pacchetti di sanzioni, la sbandierata controffensiva generale ucraina non l’ha vista nessuno, pezzi del Paese aggredito sono stati annessi e a Mosca del riconoscimento internazionale interessa ancora meno del mandato di arresto della Corte penale internazionale.
Lo zar del Cremlino è stato infatti accolto con tutti gli onori in Mongolia e non ha sentito neppure per sbaglio il tintinnare delle manette, il rapporto con la Cina è più saldo che mai, le sirene del Brics incantano diversi Paesi e l’incognita della Turchia dello spregiudicato Erdogan fa scorrere un brivido gelido nella schiena della Nato. Zelensky si aspetta «nuova energia» dal rimpasto di governo per il «rafforzamento dell’Ucraina» attraverso il cambio di pedine: agli Esteri il vice Kuleba, Andrii Sybiha, mentre alla supervisione alla produzione di armi, settore più che nevralgico, non si conosce ancora il successore di Oleksandr Kamyshin. Il presidente deve fare presto e bene, ma le due cose non sempre vanno d’accordo.
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