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Vogliono navigare come i vichinghi mille anni fa: finisce in tragedia

Marco Patricelli
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Abbiano o meno scalzato Cristoforo Colombo come scopritori dell’America con mezzo millennio d’anticipo sul navigatore genovese, una cosa è certa: i vichinghi al mare davano del “tu”, le navi sapevano costruirle e non avevano paura di nulla, neppure delle distanze e delle profondità. Per ripercorrerne la scia, in sei si sono imbarcati sulle ali dell’avventura a bordo della replica di uno scafo di legno su modello di quelli disegnati dai maestri d’ascia vichinghi, ma la traversata dalle isole Faroe alla Norvegia non si è risolta in un disastro totale e un bilancio ancor più drammatico solo grazie alle tecnologia del Ventunesimo secolo: cinque naufraghi sono stati salvati e il corpo privo di vita di una ventenne americana che era a bordo è stato recuperato dai soccorritori nei pressi dell’imbarcazione che si era rovesciata a un centinaio di chilometri dalla costa nei pressi di Ålesund.

La sfida al mare, al tempo e alla storia, se fatta a cuor leggero come purtroppo insegna questo caso, difficilmente consente di resistere ai marosi inseguendo le sirene dell’impresa, della ricerca spasmodica del video a effetto da pubblicare sui social e del selfie estremo. L’equipaggio internazionale (Faroe, Svizzera, Usa) avrà pensato che se i guerrieri scandinavi potevano attraversare gli oceani a vela e a remi tredici o quattordici secoli fa, valeva la pena rivivere quell’esperienza confidando sui ritrovati della scienza. Ma loro non erano vichinghi in versione moderna e gli antichi vichinghi non erano viaggiatori da diporto ma rudi conquistatori.

 

 

Prima ancora di diventare lo stemma di una casa automobilistica e di dare il nome a un profumo, il drakkar era un concentrato di tecnica costruttiva antica, tremendamente efficace sia nelle imprese belliche sia in quelle commerciali, tra VIII e XI secolo. In tutte le varianti e sottovarianti, la sagoma e la vela inconfondibili portavano il terrore per le scorrerie dei pirati pagani giunti dal profondo nord fino alle acque calde del Mediterraneo. I veri “no limits” di quell’epoca erano proprio loro, poiché affrontavano i placidi specchi d’acqua dei fiordi con lo stesso spirito con cui lanciavano la sfida alla spuma ruggente all’Atlantico. Le loro navi non erano niente di particolarmente sofisticato dal punto di vista ingegneristico, come poteva essere a esempio la trireme romana, ma frutto di una geniale quanto efficace semplicità: forma affusolata, agilità di manovra, robustezza a dispetto di uno spessore del legno non trascendentale, in piena sintonia con un popolo variegato che osservava come faro la legge del più forte e quello della spada, senza stare a guardare troppo per il sottile.

Dove c’era da prendere o da fare, lì c’erano o ci andavano i vichinghi (nome generico per designare una categoria storica abbastanza diversificata, da norreni a normanni, da norvegesi a danesi), con le loro navi da 10 a 100: numeri intesi come equipaggio di marinai-guerrieri. Erik il Rosso, il vichingo più famoso, era un guerriero e, visto che c’era, pure un esploratore. Mancavano 18 anni alla fine del primo millennio, inseguito da un doppio esilio per omicidi commessi in Norvegia e in Islanda, quando salì sulla barca con familiari, soldati e schiavi e si andò a prendere una terra che all’epoca era promettente e verde per la ricca vegetazione, che non caso venne chiamata dai danesi Groenlandia.

Altro che il ghiaccio a perdita d’occhio di oggi, erano proprio altri tempi, e quella colonizzazione durò mezzo millennio prima di restituire tutto alla Natura. Nel 1961 dell’era cristiana, nella quale in anticipo solo sui riottosi baltici i pagani vichinghi entrarono prima di diluirsi in tante patrie e nazionalità, vennero ritrovate tombe vichinghe in un sito archeologico a Terranova.

La scienza provò quindi che le loro navi erano approdate nel Nuovo Mondo, avviando una colonizzazione senza carattere permanente, per farsi poi risucchiare dalla storia e dalle leggende, che da quelle parti si chiamavano e si chiamano saghe. In cui le navi sono onnipresenti, perché intimamente connesse al senso di appartenenza, sia per i richiami nelle incisioni rupestri, sia per la radicata ritualità dei funerali come elemento religioso identitario. Il drakkar, dunque, è stato e rimane qualcosa di più di un mezzo di trasporto e un’arma di conquista dal mare.

Il suo fascino ha attraversato i secoli e non di rado quegli scafi che fendevano acque e onde sono stati riprodotti, dimostrando ancora una volta la loro efficacia e la loro efficienza, come accaduto nel 1893 quando una replica salpò dalla Norvegia e arrivò fino a Chicago. Le copie realizzate da reperti archeologici sono state numerose, accese dalla fantasia sulle scorrerie e le razzie dei guerrieri dalle solide braccia e dalle altrettanto solide competenze nautiche che consentivano loro di andare dove volevano.

Devono aver pensato lo stesso i sei marinai -turisti del XXI secolo, senza motore ausiliario ma con apparecchiature d’emergenza per dare l’allarme in caso di problemi, come si è purtroppo verificato: sconfitti nel loro avventurismo dai venti forti e dalle onde che hanno affondato il sogno su legno di rivivere il passato nel presente.

 

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