L'asse Facebook-dem per affossare Trump
Forse si sapeva già, per tanti versi era il classico segreto di Pulcinella: a proposito, qual è l’equivalente di Pulcinella nella Silicon Valley? Ma adesso è arrivata la clamorosa e incontrovertibile conferma da parte del protagonista diretto. Meno di trentasei ore fa, Mark Zuckerberg, il gran capo di Facebook, ha preso carta e penna, ha scritto a una commissione del Parlamento americano (per l’esattezza al Committee on the Judiciary), e ha ammesso candidamente quanto segue: «Nel 2021, alti funzionari dell’Amministrazione Biden, Casa Bianca inclusa, hanno ripetutamente e per mesi fatto pressione sui nostri team con l’obiettivo di censurare contenuti relativi al Covid, compresi materiali umoristici e di satira, e hanno espresso frustrazione se eravamo in disaccordo».
E ancora: «In una situazione differente, l’Fbi ci ha avvisato di una possibile operazione di disinformazione russa a proposito della famiglia Biden e della società Burisma in vista delle elezioni del 2020». Ma non era disinformazione di Mosca. E però che fece Facebook? Piegò la testa e censurò lo stesso. Del resto, già a giugno 2023, sempre Zuckerberg aveva ammesso che non poche delle inforamazioni censurate dalla sua piattaforma durante il periodo pandemico si erano successivamente rivelate vere, o almeno non false come erano state lungamente bollate.
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Torna alla mente l’efficace immagine coniata a suo tempo dal giornalista Matt Taibbi, che, echeggiando e riadattando ai nostri tempi la celebre definizione di Eisenhower (il «complesso militare-industriale»), ha parlato di un nuovo complesso, l’«industria della censura», che – secondo la sua ricostruzione – fece il suo esordio spettacolare orchestrando il riverbero mediatico del Russiagate (tutto farlocco, come oggi sappiamo) imbastito nel 2016 contro Trump, e poi non ci ha mai abbandonato fino a oggi. Qual è il cuore del problema? Una società davvero libera ha bisogno di un confronto tra punti di vista drammaticamente confliggenti. Al contrario, l’azione di questo nuovo “complesso” è volta a costruire un “vocabolario condiviso”, a dotare tutti di strumenti omogeneizzati e omogeneizzanti di lettura e comprensione delle cose.
Il pretesto è sempre quello della lotta alle fake news e del contrasto alla disinformazione: ma l’effetto finale è quello di uniformare parole e pensieri. Un inquietante esempio è stato ben raccontato e denunciato da una firma ben conosciuta dai lettori di Libero, il professor Luigi Curini: il Virality Project messo in piedi dalla Stanford University, e cioè una mega operazione (con il solito concorso di centri di ricerca e agenzie governative) per un monitoraggio costante e su larga scala di tutte le principali piattaforme digitali ai fini di identificare (e quindi censurare) la vera o presunta “disinformazione” in materia pandemica.
Inutile dire che quello di “disinformazione” è un concetto a maglie larghissime, in questo caso facilmente estendibile a una posizione dubbiosa o semplicemente a un’opinione differente. È stato ancora Curini ad alimentare la nostra inquietudine citando il punto di vista di uno dei partner del Virality Project: «Non possiamo avere fiducia nella capacità dei cittadini di avere dei giudizi per conto proprio. I cittadini devono invece essere protetti da verità che potrebbero minare la loro fiducia nell’autorità. E continuare a seminare dubbi e incertezze rende incapace una società di capire cosa è vero e cosa no». Come si vede, si parte da un fastidioso paternalismo e si arriva a esiti di omogeneizzazione orwelliana.
E allora è venuto il momento di tirare due somme. La prima: più che mai, rispetto a tutti gli altri oligarchi della rete, Elon Musk rappresenta al momento l’unica “deviazione dall’algoritmo”. È per questo che a sinistra lo odiano e lo temono. È lui – piaccia o no – a costituire una potente eccezione rispetto alla “regola” ormai consolidata: quella per cui l’intera enorme bolla costituita da media online, fact checkers, think tank orientati a senso unico, e naturalmente agenzie governative, era riuscita ad acquisire un controllo (apparentemente morbido, ma sostanzialmente ferreo) della gran parte degli orientamenti circolanti su internet e social media. Ecco, Musk avrà mille difetti, sarà pure un tipo bizzarro, ma è palesemente estraneo a queste operazioni e ancor più a questo tipo di mentalità.
Come si ricorderà, quando ha acquistato Twitter, il capo di Tesla ha scelto di non rendere più quel social disponibile a operazioni manipolatorie. E il pensiero corre esattamente a una delle due ammissioni fatte da Zuckerberg (per Facebook): ricorderete che il vecchio Twitter (pre Musk), alla vigilia delle elezioni del 2020, fu velocissimo ad accodarsi alla censura della storia – vera – del laptop di Hunter Biden, addirittura bannando l’account del media che l’aveva raccontata, il New York Post. Fu impedita la condivisione del link all’inchiesta e furono bloccati molti account che l’avevano rilanciato. Ricordiamo che il famigerato laptop del figlio di Biden custodiva informazioni scottanti sui suoi rapporti economici con società di paesi stranieri (Cina inclusa).
Ora sappiamo che non si trattò di un caso eccezionale, ma dell’applicazione di una prassi, quella di un rapporto stretto, per non dire di una collusione, tra agenti governativi (in particolare funzionari Fbi) e vertici delle società big tech, con costanti segnalazioni e richieste di “moderazione” rivolte a Twitter, Facebook, Google e agli altri giganti online. La seconda conclusione da trarre è tutta politica: altro che “pericolo Trump”. Semmai, quella che emerge è una triangolazione sistematica orchestrata dalla galassia dei democratici. Obiettivo? Censurare, controllare, orientare politicamente. E nel grande bivio del nostro tempo tra libertà e controllo, Trump – pur con tutti i suoi difetti – è collocato nell’area della libertà, mentre l’establishment dem – nonostante la sua apparente eleganza e ineccepibilità – è al centro della ragnatela del controllo di massa
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