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Libia, ecco la guerra del petrolio: Haftar chiude i rubinetti e il prezzo del greggio vola

Carlo Nicolato
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Khalifa Haftar, conosciuto anche come il signore della guerra libico, ormai 80enne ma considerato dai suoi alla stregua di un personaggio mitologico quasi immortale (è sopravvissuto a un tumore al cervello per il quale è stato operato a Parigi ormai 7 anni fa), ha deciso di ritornare all’azione. Quale padrone di fatto della Cirenaica e del governo fantoccio di Tobruk, nelle ultime ore, in risposta al tentativo del governo di unità nazionale di Tripoli di sostituire il governatore della Banca centrale Sadiq al-Kabir, ha ordinato di bloccare la produzione e l’export di greggio dei pozzi sotto il suo controllo, che sono la maggior parte di quelli libici. Le conseguenze sono note, il prezzo del petrolio che schizza a livello mondiale e certi fondati timori per le nostre forniture italiane da quel Paese, da cui giunge il 15% del fabbisogno nazionale.

Ma la mossa di Haftar non arriva certo da sola, si interseca con gli interessi incrociati interni ed esterni, con crisi locali ed internazionali, anche se poi gli attori sono sempre gli stessi, oltre ai due citati, in particolare la Russia, la Turchia, la Francia, gli Stati Uniti e noi nel mezzo. E oltretutto il blocco non è iniziato adesso, ma all’inizio di agosto, con la chiusura del giacimento di Sharara, il più grande del Paese. La settimana successiva Haftar ha poi ordinato alle sue truppe, comandate dal figlio Saddam, di marciare verso ovest minacciando di fatto il cessate il fuoco che dura dal 2020, mentre il 18 di agosto il Parlamento di Tobruk ha praticamente misconosciuto il governo del primo ministro Abdul Hamid Dbeibah e il Consiglio di Presidenza libico. Da qui la decisione di Tripoli di cacciare il doppiogiochista Sadiq al-Kabir.

 

 

La Libia dunque si trova sull’orlo di una nuova guerra civile dopo quella che appunto “il signore della guerra” innescò nel 2019 con l’attacco alla capitale e il successivo accordo, ma gran parte della storia, che non è solo una questione di potere interno o di petrolio tra le famiglie Dbeibah e Haftar, è meglio comprensibile se si considerano altri episodi. Tra la seconda metà di giugno e l’inizio di luglio la Guardia di Finanza italiana ha bloccato diverse navi container che trasportavano droni o parti di essi dalla Cina ed erano diretti al porto militare di Tobruk.
Solo i rimasugli in realtà delle forniture militari che i russi hanno inviato negli ultimi mesi in Cirenaica insieme a qualcosa come 1800 tra soldati e consiglieri.

Mosca infatti sta infatti intensificando la sua penetrazione in Africa e in questa logica l’alleanza con Haftar servirebbe come apripista per ottenere il controllo del porto di Tobruk, porta d’entrata del continente dal Mediterraneo. Il controllo della Libia da parte di forze alleate come quelle di Haftar faciliterebbe la costituzione di un corridoio che arriva fino all’Africa centrale attraverso il Sahel, cioè il Niger e il Mali già alleati di Putin, ma questo può avvenire anche attraverso una riappacificazione o, come si dice, tenendo il piede in due scarpe. In prospettiva infatti Mosca ha recentemente riaperto l’ambasciata a Tripoli insediando l’abile ambasciatore Aydar Aghanin che parla perfettamente l’arabo.

In tutto questo il governo italiano è costretto a giocare una partita molto complicata, gli interessi in gioco infatti sono vitali, dal petrolio appunto al controllo delle rotte dei migranti, nonché a quello dell’accesso dei pescherecci nell’area. A maggio scorso la premier Meloni ha effettuato un viaggio in Libia facendo tappa anche a Bengasi dove ha espresso al generale Haftar la necessità di porre fine alla “presenza di forze straniere sul suolo libico”. L’Italia sostiene il governo di Tripoli riconosciuto dall’Onu, come conferma anche il viaggio successivo di luglio che ha avuto come tema principale quello dei migranti, ma secondo una visione di puro realismo politico ha deciso di non chiudere a priori la porta in faccia ad Haftar.

Tale atteggiamento non deve essere piaciuto a Washington, così almeno sostiene il Corriere, che di conseguenza ha mandato un avviso in tal senso facendo bloccare il trasporto di droni cinesi quando i container si trovavano già a Gioia Tauro pur avendo fatto scalo anche a Valencia e a Barcellona. La nave ha dovuto come ormai da mesi circumnavigare l’Africa per via del pericolo degli attacchi missilistici Houthi.

 

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