Cerca
Logo
Cerca
+

Robert Kennedy Jr sfida la famiglia: la prima volta di un membro in versione repubblicana

Marco Patricelli
  • a
  • a
  • a

Nonna Rose, la matriarca della dinastia Kennedy, di lassù forse avrà storto il muso nell’apprendere che il nipote Robert Junior aveva saltato il fosso del Partito democratico per andare ad abbracciare quello repubblicano di Donald Trump, e proprio lui di persona. Anche se è un’istituzione nell’America di ieri e in parte anche di oggi, la dinastia di origine irlandese non esiste più come peso politico, se non per linea di discendenza e per la testimonianza storica del sangue versato da John a Dallas nel 1963 e Bob a Los Angeles nel 1968: zio e padre di Robert Jr. La politica scorre comunque da sempre nelle vene dei Kennedy, un’anomalia nell’humus Wasp (white, anglo-saxon, protestant) della classe dirigente a stelle e strisce. John fu il primo presidente cattolico, ma questo non gli impedì di incarnare l’american way of life nella vita privata come in quella pubblica, dagli amori alla politica estera disinvolta.
Dietro alla famiglia, un vero e proprio clan con ruoli e gerarchie, c'era sempre lei: Rose Fitzgerald, la donna che in salsa repubblicana ha perseguito la politica degli Asburgo che piazzavano uomini e donne sui troni europei pur di essere sempre nei posti di potere. E al comando i Kennedy ci sono stati, se non sempre in prima almeno in seconda fila, nonostante le tragedie e la maledizione che secondo qualcuno ha marchiato la famiglia che da sempre è schiarata nel campo democratico. Oggi che le battaglie politiche si fanno su scenari più sfumati ma con passioni più accese, colpi sopra e sotto la cintola proprio nell’epoca del politically correct, il cambio di casacca di Robert Jr. ha fatto clamore, come una specie di alto tradimento che rimescolale carte e smuove i piatti della bilancia delle presidenziali per l’alto gradimento, stavolta, che il nome Kennedy suscita nell’opinione pubblica americana.
I lettori della palla di vetro hanno già dedotto che il 4-5% di voti personali che porterebbe dalla parte repubblicana andrebbe subito a pareggiare il presunto divario con la stessa percentuale che vedrebbe in testa la candidata democratica Harris su Trump, l’arcinemico dello schieramento di sinistra da fermare a tutti i costi. Un affronto alla storia e alla tradizione, ma se ci fosse ancora nonna Rose farebbe ancora più rumore. Il clan Kennedy ha già messo il ribelle sotto processo, ma senza l’energia e il potere di veto dei tempi andati. A ben vedere, però, di scandaloso e di rivoluzionario nella decisione di Robert Jr. non c’è poi tantissimo. In fin dei conti si era già messo di traverso sulla candidatura di Biden, in contrapposizione e in alternativa come indipendente dopo aver abbandonato lo schieramento repubblicano, e nessuno potrà negare che la carta della disperazione di Kamala Harris è stato una specie di golpe interno per liberarsi del senescente presidente obbligato prima a un passo di lato poi a quello indietro, e di proporre una candidata che rispondesse appieno a una serie di requisiti che soddisfano l’identikit del perfetto progressista a stelle e strisce. Dopo il primo presidente nero, la prima donna. Roba da mandare in brodo di giuggiole il centrosinistra italiano, sempre innamorato perso di tutto quello che viene da fuori, sempre pronto a tifare con l’energia della pulce con la tosse.
Questo Kennedy, dunque, per la sua scelta diventa all’istante il cattivo ragazzo della politica americana, il ribelle, la pecora nera di famiglia, quello si è fatto abbagliare dal modello decisionista e spiccio del Tycoon invece di battersi per le nobili idee e per i princìpi per i quali i Kennedy non hanno mai lesinato impegno e forze, fino a rimetterci la pelle. Per il fronte democratico assistere all’abbraccio di Trump nel primo comizio insieme in Arizona è stato la rappresentazione in diretta di un trauma nazionale.
Per la famiglia qualcosa di più, tant’è che Katleen Townsend, Courtney, Kerry, Chris e Rory Kennedy hanno preso carta e penna e siglato uno scarno comunicato (stilisticamente assai lontano dalle ridondanze retoriche italiane) in cui ogni parola è una pietra. Così i cinque fratelli di Robert Jr.: «Crediamo in Harris e Walz. La decisione di nostro fratello Bobby di sostenere Trump oggi è un tradimento dei valori più cari a nostro padre e alla nostra famiglia. È la triste fine di una triste storia»; e ribadiscono di volere «un’America piena di speranza e unita da una visione condivisa di un futuro migliore, un futuro definito dalla libertà individuale, dalla promessa economica e dall’orgoglio nazionale». Nonna Rose assai probabilmente credeva nel «Yes, we can» prima ancora che Obama lo adottasse come slogan personale, mandando in estasi Walter Veltroni, e lo riciclasse per Kamala Harris, accendendo scintillìi di entusiasmo nel centrosinistra italiano. Ma i veri fuochi d’artificio li ha fatti proprio Robert Jr.: lui l’ha fatto davvero.

Dai blog