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Kamala Harris, punta tutto su "gioia" e "felicità" perché non è credibile su riforme ed economia

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Luigi Curini
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Kamala Harris come il primo Beppe Grillo? A prima vista sembrerebbe una provocazione. Da un lato abbiamo un politico da anni parte dell’establishment del partito democratico, dall’altro un comico che tentava la scalata in politica. Ma se andiamo un attimo più in profondità, le similitudini, per lo meno per quanto riguarda il contenuto delle rispettive campagne elettorali (in particolare, quelle degli albori del M5S), sono evidenti.

Qualcuno si ricorda forse i punti programmatici principali del M5S nel 2013 o 2018? Probabilmente no, perché pressoché l’intera narrazione di Grillo & co. si basava sui temi dell’onestà e dell’uno vale uno. Insomma, su quello che la letteratura di scienza politica chiama valence issues: valori largamente condivisi nell’elettorato. Perché se possiamo sempre trovare persone a favore o contro ad un maggiore ruolo dello stato in economia (ovvero sulle politiche), quando parliamo di “onestà” (ovvero su un valore condiviso) tutti sono a favore, mentre sulla corruzione tutti sono contro. E così via. Ora, i discorsi di Kamala Harris sono finora stati così differenti? Certo al posto dell’onestà abbiamo sbandierato il tema della “felicità” e della “gioia” contrapposti all’odio trumpista, ma di politiche concrete? Si è parlato poco o punto.

 

 

 

Può essere questa una strategia vincente per i democratici, come fu quella di Grillo qualche anno fa? Per esserlo, due condizioni dovrebbero essere soddisfatte. In primo luogo, chi parla di valori condivisi, deve essere credibile a riguardo. Lo era Grillo quando parlava di “onestà” in politica (dopotutto lui non era un politico di professione). Sulla combo Harris e felicità la giuria è invece ancora indecisa. Certo, la candidata democratica sorride molto, tranne però quando parla dell’altra metà del cielo politico americano. Lì il suo linguaggio da “gioioso” diventa ben diverso. Molto più fosco. In secondo luogo, a giocare un ruolo cruciale sul possibile successo di una campagna elettorale vuota di programmi ma ricca di valori, è l’ambiente politico che la circonda. Le valence issues fanno infatti davvero la differenza in termini di voti in quei contesti in cui i contendenti presentano proposte politiche tutto sommato simili. Se infatti il programma di A è identico a quello di B, l’elettore non può distinguerli sulla base delle politiche proposte. Ergo deve fare affidamento su qualcosa d’altro per scegliere cosa scrivere nell’urna elettorale. E quel qualcosa d’altro sono precisamente i valori condivisi.

Al contrario, se i contendenti propongono politiche diametralmente opposte, il ruolo delle valence issues per spostare voti è ampiamente ridotto. Non è quindi un caso che il M5S con la sua strategia basata proprio sui valori abbia avuto successo nell’Italia post-Muro e post-Euro, invece che in una ipotetica Italia degli anni ’70, per dirne una, in cui i programmi dei partiti erano molto più distanti tra di loro. E negli Stati Uniti? Beh, la Harris come senatore si è caratterizzata per essere quella più a sinistra di tutti, e anche come vicepresidente le sue posizioni sono sempre state molto progressiste. E deve affrontare un avversario, Donald Trump, anch’esso lungi dall’essere particolarmente centrista. Non sembrerebbe essere questo dunque uno scenario particolarmente promettente per impostare una campagna solo su “felicità” e “gioia”.

 

 

 

D’altra parte, però, la Harris si trova di fronte alla necessità di smarcarsi da molte politiche dell’amministrazione Biden, di cui fa parte dopotutto, a partire da inflazione e sicurezza. Da qua la via di uscita: smettere di parlare del tutto di politiche (anche perché l’unica eccezione finora, ovvero quella sulla necessità di controllare i prezzi, è stata criticatissima) o semplicemente copiarle dalla controparte (come è il caso della detassazione delle mance per i camerieri – proposta in realtà da Trump mesi fa), e puntare tutto sui valori, sperando che gli americani siano abbastanza distratti da dimenticarsi il passato (assai recente, a dire il vero) di Kamala. Una strategia che può avere successo solo nella misura in cui ai media sta bene (cosa che sta accadendo), e i repubblicani non riescano a spostare il confronto proprio sulle politiche. Mettendo da parte per una volta la verve polemica, spesso fuori misura, del loro candidato. Ricordando agli elettori che la gioiosa macchina da guerra di Kamala, pardon, la “gioia”, è sì una grande cosa, ma non riempie la pancia a fine mese.

 

 

 

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