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Kamala Harris fa propaganda anche sugli ostaggi

Giovanni Sallusti
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Il maxi-scambio di prigionieri tra Russia e Occidente è sia un punto a favore che una brutta notizia per Donald Trump, e chi ci vede una contraddizione non si è ancora calato nella campagna elettorale americana più pazzotica di sempre.

Dal punto di vista metodologico, l’accordo è trumpismo puro, quasi l’autosconfessione di lustri di approccio dem all’autocrazia putiniana, caratterizzato da una contrapposizione retorica rigida e drammatizzata, a volte isterica (ricordiamo il “pazzo figlio di p...” rivolto da Biden allo Zar), senza però che ne sia conseguita una deterrenza effettiva (altrimenti sarebbero stati dei repubblicani classici), né tantomeno che si sia posta una sfida davvero esistenziale alla tirannia russa (altrimenti ci saremmo trovati in presenza di un rinnovato reaganismo).

 

IL CONTRORDINE

L’alfiere di questo approccio, diciamo pure parolaio, è stato Barack Obama, e Sleepy Joe non si è discostato di un millimetro. Fino al capovolgimento emerso con lo scambio di questi giorni: contrordine, con Putin si parla (seppur attraverso la mediazione turca), con Putin si negozia, si accetta perfino di liberare personalità borderline o palesi sicari al soldo del Cremlino, pur di riportare a casa americani e salvare dissidenti perseguitati, due stelle polari che poi sono le due facce intimamente connesse dell’America: la nazione e la democrazia. Presidiate tramite trattativa.

E' l’alfabeto di Trump, che poi era l’alfabeto del realismo nixoniano (leggi anche kissingeriano) e ancora prima del pragmatismo di Theodore Roosevelt: «Parla gentilmente, ma sempre imbracciando un nodoso bastone». $ un riconoscimento dell’impostazione e fin della tradizione da cui proviene l’avversario, e proprio per questo è elettoralmente insidioso: i democratici paventano di abbandonare l’idealismo verboso, di lasciare l’obamismo ai suoi contorcimenti oratori e patinati, e di tornare a praticare l’arte realistica della politica, nell’interesse dell’America.

Non è una previsione, è già il racconto che sta montando dell’operazione-prigionieri (la sponda giornalistica, ovviamente, è qualcosa che i dem possono dare per scontato in questa tenzone), con Joe Biden che può incredibilmente reinventarsi sceriffo globale: «Lasciatemi essere chiaro, non smetterò di lavorare finché ogni americano ingiustamente detenuto o tenuto in ostaggio in tutto il mondo non sarà riunito alla propria famiglia».

Conta nulla la realtà fino all’altro ieri, conta che lo storytelling è partito, e per la prima volta è uno storytelling che tracima nel campo dell’altro. Donald Trump lo sa benissimo, e infatti non attacca la cosa in sé, l’idea di fondo di negoziare da posizioni di forza (di cui può anzi rivendicare la primogenitura), ma le modalità, vuole confinarli nella parodia di un trumpismo malriuscito, dove della posizione di forza non ne è più nulla. «Quando pubblicheranno i dettagli dello scambio di prigionieri con la Russia? Quante persone prendiamo rispetto a loro? Li stiamo anche pagando in contanti? Stiamo liberando assassini, killer o delinquenti?».

 

LA NUOVA NARRAZIONE

Fino all’attacco diretto: «Ho riportato a casa molti ostaggi e non ho dato un soldo al Paese avversario. Farlo è un brutto precedente per il futuro. Stanno estorcendo denaro agli Stati Uniti d’America». L’onere della prova sta al tycoon, il sospetto è forte, i democratici negano, ma sono concentrati su altro. Essì, perché mica basta la nuova narrazione su un Joe Biden implacabile (ed improbabile) negoziatore intento a brandire il “nodoso bastone” di rooseveltiana memoria.

Occorre che il discorso compia un’ulteriore piroetta, serve innescare una sorta di proprietà transitiva mediatica, perché all’incasso comunicativo finale di questo intreccio deve esserci lei, la madrina delle magnifiche sorti e progressive d’America, Kamala Harris. $ il motivo per cui la vicepresidente era lì, alla base militare di Andrews (Washington), a fianco di Biden, a replicare (e in qualche caso anticipare) stretta di mano e abbraccio. Serve un tocco-Kamala, a questa storia, perché funzioni davvero, perché possa agire in qualche modo nell’urna elettorale.

 

LA DIPLOMAZIA

E' un gioco di specchi in equilibrio precario, che regge tutte le esternazioni di lei: «Questo è un giorno incredibile e sono piena di gratitudine per il nostro presidente e quello che ha fatto nella sua intera carriera. $ una dimostrazione dell’importanza di avere un presidente che capisce il potere della diplomazia». Bravo Joe, bravissimo, peccato solo tu sia a fine carriera, ma per fortuna ci sono qui io, che da un paio di settimane ho cessato di essere la vice più disastrosa della storia americana e sono diventata una cima nell’arte di governare (è il lavoro di rebranding che i media amici stanno traducendo in una vera e propria “Kamalamania”, come ha analizzato in questi giorni il settimanale conservatore britannico The Spectator). Insomma, Kamala deve per osmosi catalizzare sudi sé tutta l’empatia della faccenda, e lo sta già facendo. A The Donald sul tema rimane un unico, non trascurabile vantaggio: come roteatore minaccioso di bastoni rimane assai più credibile.

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