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Kamala Harris candidata? Forse: faida tra i dem, la mossa di Nancy Pelosi

Andrea Valle
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E adesso che succede nel campo democratico? Dopo la decisione di Joe Biden di farsi da parte dalla corsa elettorale (ma senza dimettersi da Presidente: questo è un punto assai significativo) si entra letteralmente in terra incognita, in territorio non mappato. E non va trascurato nessuno dei due seguenti possibili scenari. Il punto di partenza è rappresentato dalla seconda comunicazione che Biden ha diffuso nella giornata di ieri, quando ha esplicitato un netto endorsement a favore della sua vice Kamala Harris.

A onor del vero, se Biden avesse voluto blindarla del tutto, si sarebbe dovuto dimettere anche da Presidente, facendola subentrare direttamente alla Casa Bianca. E a quel punto scalzarla dalla candidatura alla rielezione sarebbe stato pressoché impossibile. Ma è l’orgoglio che deve aver guidato Biden, a cui la concessione dell’uscita di scena dalla corsa elettorale deve essere parsa più che sufficiente come sacrificio. Certo che però – in questo modo – si espone clamorosamente all’accusa che già prima del suo annuncio gli era stata mossa a muso duro dal vice di Donald Trump J.D. Vance: «Se Biden pone fine alla sua campagna per la rielezione, come può giustificare il fatto di rimanere presidente?». E ancora: «Non correre per la rielezione sarebbe una chiara ammissione del fatto che aveva ragione Trump sul fatto che Biden non fosse nelle condizioni psicofisiche per servire come Commander in Chief. Non c’è via di mezzo».

Ma torniamo ai nostri due scenari, avendo come punti fermi il ritiro di Biden e il suo sostegno alla Harris. Il primo scenario è che – per amore o per forza – il partito finisca per accettare largamente e senza troppe polemiche la candidatura di Kamala. A favore di questa ipotesi milita il fatto che un’ulteriore faida affosserebbe ancora di più la già barcollante campagna dem; contro, gioca però l’impopolarità di Kamala, che ha malgestito in questi anni tutti i dossier che le sono stati affidati (a partire dal tema rovente dell’immigrazione).

Poniamo però che il partito scelga di dirle di sì, come hanno fatto a stretto giro di posta Bill e Hillary Clinton. Questa formalizzazione può avvenire, per accelerare i tempi, attraverso delle mini-primarie, oppure, con una tempistica un po’ più dilatata, in occasione della convention prevista a Chicago tra il 19 e il 22 agosto (sempre che vista la situazione tutto non venga anticipato). Se prevalesse la linea pro Kamala, la partita si sposterebbe sul running-mate, cioè sul candidato o la candidata da affiancare alla Harris come vice (realisticamente un governatore). Si fanno i nomi di Andy Beshear (Kentucky), Tony Evers (Wisconsin), J.B. Pritzker (Illinois), Josh Shapiro (Pennsylvania).

Il secondo scenario – opposto al primo – è che, nonostante l’endorsement di Biden, le lacerazioni nel partito non vengano affatto sanate a favore di Kamala. In questo caso, la Harris sarebbe in gara né più né meno di tanti altri, in una corsa fratricida e incertissima. Non manca chi ipotizza colpi di scena clamorosi (la discesa in campo di Michelle Obama), ma gli avversari più probabili della Harris restano gli stessi governatori che abbiamo citato poco fa.

E questa è l’ipotesi preferita dall’ex speaker della Camera, Nancy Pelosi, che era stata nei giorni scorsi attivissima non solo nel sollecitare il passo indietro di Biden ma anche nel precisare che, venuto meno lui, la corsa sarebbe stata “aperta”, cioè non riservata alla Harris. In questo caso, o le mini-primarie o la successiva convention diventerebbero un autentico pandemonio. Per la gioia di un Trump che potrà agevolmente indicare la differenza tra la sua campagna – a quel punto – tranquilla e il caos in casa degli avversari.

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