JD Vance, la prosecuzione di Trump con altri mezzi
Per Donald Trump non è la fiammata d’orgoglio. Né è il running mate, il “compagno di corsa” perfetto per le elezioni americane del 5 novembre, né il candidato vicepresidente che aveva sempre sognato. O meglio lo è, ma non solo.
J.D. Vance, in realtà, non ancora quarantenne, rappresenta il ritorno al futuro di The Donald: è un Trump fra trent’anni, solo più colto, preparato e presentabile. Vance è anche un populista avanzato: nato povero ma laureato a Yale, sceriffo della working class ma pure venture capitalist della Silicon Valley; con la barba virile (che taglierà se vince, l’ha promesso a Donald) e con lo spessore culturale di un Hemingway in grado di regalare l’essenza culturale del trumpismo alla posterità. Vance è moltitudine. Brilla pure come templare cattolico sposato tramite matrimonio interreligioso con un’immigrata indiana da cui ha avuto tre figli, e questo lo preserva dalla accuse di razzzismo; e le sue opinioni possono sì cambiare (è avvenuto non poche volte) ma esalano sempre nel solco di un inossidabile conservatorismo che potrebbe risalire ai Padri Pellegrini.
Dio salvi l’America. Che Vance, appena candidato braccio destro del futuribile Presidente degli Stati Uniti Trump , be’, a salvarsi dai ferocissimi attacchi dei Democratici spiazzati e della stampa liberal, ci pensa benissimo da solo.
Ora, sarebbe un errore sottovalutare il nostro uomo. Il quale, l’altro giorno, dal palco repubblicano di Milwaukee saettava sorrisi mentre i suoi avversari, sui giornali e nei talk show, già ne cominciavano la paziente opera di denigrazione. Da 48 ore oramai piovono pietre sul papabile vice-president. «Vance è un personaggio interessante, e perché sposta il trumpismo in un’altra dimensione, non quella della politica di protesta, o del tentato golpe permanente, ma quella di una risposta strutturale alla rabbia che ha alimentato il consenso al trumpismo. Vance è un nuovo tipo di politico, il genere che la politica della rabbia può produrre», afferma l’analista liberal Stefano Feltri, preoccupatissimo. «Vance un trasformista, ambizioso, capace di reinventarsi più volte nel corso della vita pur di avere successo e visibilità» scrive il New York Times. «Vance era un conservatore moderato che si definiva “never trumper”, mai con Trump, perché pensava che il populista newyorchese fosse una concausa di questa crisi culturale americana, non il rimedio. Di conseguenza, grazie allo status da superstar che si era conquistato con il suo memoir sui terroni d’America, Vance spiegava a destra e a manca che Trump in realtà era “l’Hitler d’America”, un “idiota”, un essere “spregevole”, una “droga culturale” perla società americana», aggiunge Christian Rocca su Linkiesta. Anche se Rocca, neocon convinto esportatore di democrazia americana, è un avversario del Vance a sua volta avverso agli aiuti all’Ucraina; e, poi, se vogliamo dirla tutta, quella dell’epiteto del «Trump Hitler a stelle e strisce» è tutta da dimostrare.
A dire il vero, è Vance stesso a spiegare la sua conversione da invitto antitrumpiano di destra - un po’ alla John McCain- a filo-Donald invincibile. «Come molti altri conservatori e liberali delle élite» è la sua versione dei fatti «mi sono permesso di concentrarmi così tanto sull’elemento stilistico di Trump da ignorare completamente il modo in cui sostanzialmente offriva qualcosa di molto diverso sulla politica estera, sul commercio, sull’immigrazione. L’ho incontrato per la prima volta nel 2021. Una delle storie che mi ha raccontato riguardava come alcuni dei nostri generali quando era presidente cambiassero i tempi delle ridistribuzioni delle truppe in Medio Oriente in modo da potergli dire che i livelli delle truppe stavano diminuendo, quando in realtà li modificavano solo nel breve tempo, senza ridurli».
Lì - in un momento d’abisso del tycoon fuoriuscito con disonore dalla Casa Bianca dopo i fatti di Capitol Hill - il senatore di Middletown capì quanto Trump fosse profondamente avverso al “sistema”. Un sistema inteso come barrage anticonservatore, fatto di cultura woke e di politicamente corretto, come pressione delle élite intellettuali, come globalizzazione e bellicismo dei diritti civili. Vance è, in soldoni, l’“erede designato”.
Pensa al presente di questa campagna elettorale che dà favorito il suo mentore, ma è proiettato al futuro del Partito Repubblicano e del Maga, il concetto trumpianissimo del Make America Great Again. Vance, poderoso senatore dell’Ohio, America profonda e ruralissima, possiede molti atout, non sempre opportunatamente sfruttati. Innanzitutto è stato un marine, un reduce dall’Afghanistan con un conoscenza profonda della guerra e della politica estera (come McCain, appunto). Poi ha idee economiche che solo in superficialità possono essere considerare troppo isolazioniste: «Negli ultimi 40 anni abbiamo avuto troppa poca innovazione e troppa sostituzione della manodopera con lavoro a basso costo. Dobbiamo fare di più con la forza lavoro nazionale». E qui eccolo accaparrarsi fondi e voti del sindacto - specie dei camionisti - e della classe medio/bassa della Rust Best, la cintura operaia del Midwest che già nella scorsa tornata elettorale diede le spalle alla candidata Hilary Clinton.
Mentre sulla guerra Mosca-Kiev è trumpiano all’ennesima potenza: «Serve congelare la situazione dove è adesso, garantire l’indipendenza di Kiev, ma anche la sua neutralità: non voglio essere naif su questo, la Russia ha chiesto un sacco di cose in modo disonesto, ma la neutralità è chiaramente qualcosa che vedono come condizione esistenziale. E garantire un qualche tipo di assistenza americana nel lungo termine». Secondo Vance, «con le nostre capacità non riusciremo a fermare i russi all’infinito. Abbiamo il vantaggio che loro non possono conquistare e tenere tutta l’Ucraina e non possono sostenere questa economia di guerra». E la chiosa, giusto di ieri è «penso che Trump negozierà ala pace tra Mosca e Kiev».
Come scrittore, Vance evoca nelle tematiche una sorta di mix fra Ken Loach e il Frank Mc Court delle Ceneri di angela. Nel suo memoir di successo Hillbilly Elegy, Elegia americana, racconta la crisi della classe operaia (portato al cinema dal premio Oscar Ron Howard); esplora la storia di una famiglia della Rust Belt, attraverso quella di un bambino abbandonato dal padre e dotato di una madre alcolista e di una nonna guerrafondaia che aveva dato fuoco al marito violento.
Racconta di fatto la sua stessa lotta contro la povertà. Vance è sopravvissuto anche a tutto questo.
Vance è, di fatto, la prosecuzione di Trump con altri mezzi. Non è detto che, una volta (forse) arrivati alla Casa Bianca, The Donald non possa confinarlo nel cono d’ombra della sua – diciamo- prorompente personalità. Comunque sia, un problema alla volta...