Cerca
Logo
Cerca
+

La Nato in Kosovo si sta preparando al futuro intervento tra russi e ucraini

Antonio Castro
  • a
  • a
  • a

Venticinque anni di presenza in Kosovo. Delicate nozze d’argento – quelle tra il Paese balcanico e la Nato – per il momento «tranquille ma fragili» come le definisce un alto ufficiale che ha maturato una sensibilità particolare per questo teatro internazionale.

La presenza militare italiana - sotto le insegne del Patto Atlantico - ha origine un quarto di secolo fa in questo lembo d’Europa continentale a due ore di volo da Milano. Era il giugno del 1999. L’attacco serbo costrinse la Nato a schierare 40mila uomini per sedare, tra marzo e giugno, i fuochi di una rivolta etnica e sociale che avrebbe rischiato di far precipitare il continente in un conflitto ben più esteso. E pericoloso.

 

 

 

Tanto più per l’Italia che si trovava allora a fronteggiare alle porte di casa l’implosione dell’ex Jugoslavia. Dopo 25 anni il Kosovo appare «pacificato», mette le mani avanti il colonnello Francesco Ferrara al suo terzo mandato in questo minestrone di culture e religioni. L’esperienza maturata dal comandante del 1° Reggimento Bersaglieri - oggi a capo del Regional Command West - è merce preziosa. Racconta a Libero: «Questo Paese è cambiato molto in questi anni. Le infrastrutture e la viabilità sono di gran lunga migliorate. E noi oggi siamo qui per puntellare questo progresso. Da poco c’è stata la liberalizzazione dei visti da e verso l’Europa. Passaggio fondamentale per consentire alle giovani generazioni di concludere gli studi all’estero e di integrarsi con il resto del continente europeo per iniziare a lavorare».

L’Italia, grazie anche al contingente dei Carabinieri schierati a Pristina, può anche rivendicare la capacità di aver gestito le fasi calde del conflitto multietnico. «Successivamente», ricostruisce il comandante del contingente dell’Arma dei Carabinieri, colonnello Massimo Rosati, «abbiamo avuto il compito di addestrare la nascita e lo sviluppo delle forze di polizia che devono operare in un contesto post bellico». E oggi i frutti si vedono: le pattuglie (“miste”) serbe e kosovare interagiscono nella lingua (o dialetto) dell’interlocutore.

 

 

 

Questo “addestramento sul campo” ha consentito ai diversi contingenti che si sono alternati in questo delicato teatro di maturare una capacità unica in gestione delle crisi. Giorgia Meloni e Guido Crosetto, intervenendo negli ultimi tre giorni al vertice del Patto Atlantico, si riferivano proprio a questa capacità riconosciuta degli italiani di inserirsi in situazioni di “crisi complessa”. Dove, solitamente gli altri si ritirano o non possono intervenire per retaggi storici (un esempio per tutti oltre al Kosovo è sicuramente la presenza prolungata in Libano), le forze armate italiane sono ben accolte. Con 35 missioni internazionali in attivo in mezzo mondo - e una complicata alternanza - l’Italia contribuisce alla necessità Nato di attuare una «postura di difesa e deterrenza a 360 gradi per affrontare gravi crisi emergenti sul fianco Sud», ha sintetizzato ieri il ministro della Difesa Guido Crosetto, più che una scelta è diventata una necessità. E quando smetteranno di volare missili e droni lo stesso sarà necessario fare in Ucraina.

Il problema del Kosovo è un paradosso tutto locale: incastonato al centro dei Balcani dopo aver vissuto la guerra civile (a seguito della dissoluzione dell’ex Jugoslavia) ancora oggi la formale domanda di adesione all’Unione europea, avanzata ripetutamente dal governo di Pristina, galleggia in un mare di “niet” tra Strasburgo e un manipolo di Paesi dell’Unione che non riconoscono l’indipendenza kosovara (Grecia, Romania, Spagna e Cipro).

Il paradosso è che dal gennaio 2024 la Spagna riconosce sì il passaporto del Kosovo, per cui i cittadini kosovari possono entrare senza visto in tutti i 27 paesi Ue dello spazio Schengen, anche se Madrid non cambia la posizione di non riconoscimento dell’antica provincia serba come stato indipendente. Una scelta forse motivata dalla scelta di non riportare in auge la questione catalana.

Oggi il Kosovo, con le sue mille complicazioni locali, lingue, religioni, antichi dissapori ultracentenari, rappresenta una palestra di esercitazione unica per gestire altre situazioni delicate in mezzo mondo. L’archimandrita ortodosso padre Sava Janiic - abate della splendido monastero della Chiesa ortodossa serba in Kosovo, a 12 chilometri a sud della città di Pec – ripesca l’esempio della provincia autonoma di Bolzano dove si parlano tradizionalmente lingue diverse «e dove si è riuscito a costruire un luogo di pace e condivisione». Il monastero di Visoki Decani è un gioiello medioevale (riconosciuto come bene universale dall’Unesco) che non solo ospita la più grande chiesa medievale dei Balcani e fa sfoggio del più grande affresco ortodosso che si sia giunto fino a noi. Al monastero sono presenti due militari di collegamento italiani di Kfor “RC -W” dal 1999 a tutela della tranquillità monastica. Un esempio di pace da riproporre. 

dal nostro inviato a Pec Antonio Castro

Dai blog