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Francia, la lezione della storia: rivoluzioni e bluff, tutto passa da Parigi

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Luca Beatrice
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Per noi torinesi è sempre stata la Francia il punto di riferimento, lo sguardo puntato a Parigi, a scuola si studiava la sua meravigliosa e complessa lingua invece dell’inglese che veniva ritenuto un idioma secondario, commerciale. Imbevuti di cultura transalpina, non si è mai potuto immaginare un’idea di Europa senza la Francia a dettare tempi, ritmi, passaggi di epoche, dal moderno al contemporaneo e non è certo un caso che nei programmi scolastici e universitari proprio l’ingresso nel contemporaneo venga situato nel 1789, la Rivoluzione Francese, per certi versi l’unica vittoriosa, seppur a che prezzo.

Poiché non vi è politica senza cultura, i grandi cambiamenti sociali di questo Paese si possono leggere solo osservandone le intuizioni intellettuali. Con una premessa: la storia corre più veloce degli uomini, sfugge di mano, difficilmente tutto va come previsto. Il XVIII a Parigi è il Secolo dei Lumi. Filosofi e pensatori mettono in discussione il ruolo del re, Montesquieu teorizza la separazione dei poteri ponendo le basi dello Stato di diritto e della democrazia liberale, Diderot e Dalambert concepiscono l’Encyclopedie, compendio dei saperi universali verso la laicizzazione e l’abbandono di qualunque mistica a favore della scienza e dell’utilizzo di una lingua nazionale. Punto massimo della civiltà del pensiero, il Settecento invece si chiude nel sangue e gli esiti della Rivoluzione non sono tanto la fine della monarchia nel 1792, la proclamazione della Repubblica e l’ascesa della nuova classe borghese, quanto massacri assortiti, le teste cadono sotto la lama della ghigliottina in una lotta fratricida. La Rivoluzione, accadrà poi altrove, muta nel Terrore. Altro che strada verso la libertà, la Francia ottocentesca reinventa o inventa quella figura che sarà alla base per i dittatori del secolo XX.

Napoleone è un uomo dell’esercito e dunque come tale aspira al comando, un valoroso condottiero conquistatore, ma soprattutto il personaggio che più incarna la grandeur di un popolo che voleva dominare il mondo pensando gli spettasse di diritto. Restaura l’assolutismo, prende il potere nel 1804 ripristinando l’uso della corona e lo perde in fretta, dopo Waterloo nel 1815, poco prima Hegel aveva visto in lui «un tale individuo che qui, concentrato in un punto, seduto su un cavallo, si irradia sul mondo e lo domina».

 

Per trovare un altro leader così forte e carismatico toccherà attendere più di un secolo; alla fine della Seconda Guerra Mondiale è di nuovo un generale alla guida, Charles de Gaulle, eroe militare, fondatore della Quinta Repubblica, presidente per dieci anni dal 1959 al 1969, criticato da destra e sinistra per il modo personale nella gestione del potere, impegnato su fronti caldi come la decolonizzazione dell’Africa, la crisi della Guerra d’Algeria e l’opposizione dei pieds-noir, che in Europa porta per la prima volta la questione urgente del rapporto tra popoli e culture che tendono a non integrarsi nonostante le buone intenzioni e i proclami di certa gauche. Altro cambiamento ineludibile richiesto alla Francia, nazione del pensiero evoluto che si trova a dover affrontare un trauma e man mano che passa il tempo e ci avviciniamo al presente la classe politica appare inadeguata, rinchiusa nella torre d’avorio o quantomeno in una zona di conforto.

Sulla questione “coesistenza” c’è una data molto significativa che deriva ancora dal mondo della cultura. Nel 1989 - non sarà un caso, è anche l’anno del Muro di Berlino e di un informatico inglese che brevetta il www - al Centre Pompidou di Parigi si inaugura una mostra epocale, Magicien de la terre, e per la prima volta espongono nell’avveniristico spazio progettato da Rogers e Piano 50 artisti occidentali a confronto con altrettanti giunti da altri mondi, allora sconosciuti. Primo passo significativo verso l’integrazione della nascente società globale? Non proprio, anche culturalmente nel primo mondo si parla la lingua del cotto, del prodotto sofisticato, dell’opera d’ingegno, altrove no, domina il crudo, lo stato di natura, secondo la ben nota definizione di Claude Levi-Strauss, e se immaginiamo tali inquilini in uno stesso condominio non sarà facile andare d’accordo.

Nonostante la spinta progressista degli intellos che odiano il populismo pur non amando il popolo, la Francia è una Nazione di destra senza il coraggio di diventarlo e infatti anche questa volta ha prevalso il voto contro, la chiamata alle armi contro la paura Le Pen, la Francia ha scelto la strada dell’ingovernabilità; un Paese che nel passato recente si è dovuto accontentare di presidenti deboli come Sarkozy e Hollande, oppure inventarsene uno come Macron in pochi mesi, dato per finito ora recupera improvvisamente trovando sulla propria strada alleati dell’estrema sinistra solo per fronteggiare l’ondata della destra cattiva che vince le battaglie ma mai la guerra e in due settimane ha polverizzato pronostico e vantaggio che pareva rassicurante. Nonostante sentimenti alquanto precisi: i francesi non ne possono più dell’invasione incontrollata dell’immigrazione, i parigini sentono la Cité sempre più stretta nella morsa delle banlieue, dopo averlo vissuto sulla propria pelle non hanno dimenticato l’incubo del terrorismo. Persino nei blu di Didier Deschamps, semifinalisti all’Europeo, è davvero difficile che un francese non di colore possa identificarsi appieno, e le radici culturali di un popolo orgogliosissimo per cui è stato coniato il termine sciovinismo rischiano di essere estirpate dalla mollezza di chi non accetta la realtà delle cose. Cosa succederà a questo punto nella patria della Marsigliese è davvero difficile da prevedere.

 

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