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Casa Biden? Joe balbetta, la moglie Jill va su Vogue

Giovanni Sallusti
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Mentre Donald Trump segna un punto clamoroso con la sentenza della Corte Suprema che gli concede l’immunità parziale, le notizie che arrivano da Camp David, sede dello psicodramma bideniano, gettano una luce diversa sulla copertina del numero di Vogue di luglio. In prima pagina c’è Jill, first lady in elegante cappotto bianco di Ralph Lauren, sguardo deciso fuori pagina, linguaggio del corpo assertivo, tutto quello che il marito non è, o non è più. Titolo semplice, virgolettato: «Noi decidiamo il nostro futuro».

Uno sprone all’elettorato americano, ma anche un’ovvietà (perlomeno oltre Atlantico, dove non esistono caminetti, blocchi repubblicani, liturgie aggiuntive rispetto al popolo votante). La scena comincia a diventare meno banale con un’interpretazione più restrittiva del pronome iniziale: “noi”, come clan Biden, “decidiamo il nostro futuro”.

E abbiamo tutta l’intenzione di fargli replicare il presente: potere (non retorico, sostanziale, le leve globali maneggiate tra un party e una raccolta fondi), lobbing sotto il miglior tetto possibile, copertine ai quattro angoli del pianeta, una rete di protezione non proprio secondaria rispetto ai guai, giudiziari e d’immagine, di qualcuno di noi.

È la tragicommedia famigliare americana che è andata in scena nei giorni scorsi nella residenza istituzionale del Maryland, e che ha scodellato il New York Times citando «fonti vicine alla famiglia» (ovvero, la famiglia stessa in amabile conversazione col redattore di fiducia). Il parentado all’unisono, riunito attorno a un focolare domestico che evidentemente in questo momento esercita attività di supplenza rispetto alla leadership democratica, ha esortato il presidente «a restare in corsa e a continuare a combattere nonostante la débâcle nel dibattito tv».

 

La voce più granitica e pressante, al punto da «implorare Biden di resistere», sarebbe stata quella del figlio Hunter, e qui la malizia del cronista esonda (non c’è niente di più spietato di una prestigiosa testata liberal che scarica il proprio cavallo di riferimento). Perché sicuramente, come «riferiscono le fonti» suddette, Hunter «vuole che gli americani vedano la versione di suo padre che lui conosce combattiva e padrona dei fatti - piuttosto che il presidente malfermo e anziano che hanno visto giovedì sera». Assai più verosimilmente, però, Hunter vuole anche conservare la garanzia maggiore che detiene, forse l’unica, rispetto alla grana giudiziaria che non lo molla. Il rampollo è stato recentemente giudicato colpevole dal tribunale di Wilmington, Delaware, in un processo legato al possesso illegale di una pistola, acquistata mentendo sul consumo di droga, nonché a reati fiscali. 

 

«Sono più grato per l'amore ricevuto dalla mia famiglia che deluso per l'esito», dichiarò Biden jr, ma certo se questo amore continuasse a propagarsi dalla Casa Bianca non sarebbe male, visto che la sentenza con l’entità della condanna deve ancora arrivare. E allora no, il patriarca non deve mollare, deve continuare a portare questo fardello nazional-familistico su spalle non più robuste, sostenerlo con argomenti non più fluenti, proncunciati con voce non più perentoria, perché così ha deciso il focolare, in un allucinato isolamento anzitutto dal proprio mondo. E contro ogni evidenza, anche aritmetica, contro il sondaggio diffuso ieri dalla Cbs, secondo cui per il 72% degli elettori Biden non ha la salute mentale per servire come presidente (il giorno prima uno analogo di Axios mostrava un 60%, di questo passo arriveremo a brevissimo al 100%).

Occorre tacitare ogni refolo di realtà: non a caso Jill, ad articolo di Vogue già chiuso, ha fatto aggiungere un suo virgolettato post-dibattito: «Non lasceremo che quei 90 minuti definiscano i 4 anni in cui è stato presidente. Continueremo a lottare». Non abbiamo dubbi: è la lotta per eccellenza, quella per rimanere in cima alla piramide del potere.

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