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Ultimo rifugio ed errore: demonizzare Donald Trump

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Donald Trump

Daniele Capezzone
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Secondo un protocollo ampiamente sperimentato, dopo che il campione pompato dai media progressisti, dall’Inviato Collettivo e dal Commentatore Unico, è miseramente caduto al tappeto, il passaggio successivo prevede la demonizzazione assoluta del probabile vincitore. È l’ultimo (e chiaramente disperato) refugium peccatorum: descrivere l’eventuale vittoria di chi ormai è strafavorito come un evento che procurerà una certa-rapida-devastante Apocalisse. Inutile girarci intorno. Pugilisticamente parlando, all’angolo-Biden stanno tutti nel panico. Sostituirlo, come abbiamo anticipato ieri, è complicatissimo: anche ammesso che lui accetti di fare il passo indietro, trovare un candidato unificante nel nido di vipere dem è praticamente impossibile. Non solo sono divisi su tutto (su Israele, sulle tasse, sull’immigrazione), ma soprattutto si detestano a vicenda in modo viscerale. A tenerli insieme in questi ultimi anni c’è stato solo l’odio per Trump, in combinato disposto con la presenza di un Biden che, per evidenti ragioni, non appariva un’insidia per nessuno di loro.


E allora che si fa adesso? Nell’attesa di sciogliere il nodo di qui alla convention di agosto, non resta che la reductio ad Hitlerum di Trump. Il quale – beninteso – non è una mammoletta, e spesso si abbandona a un linguaggio di impressionante durezza (roba da trasformare i nostri talk-show in conversazioni fra educande), ma – ecco il punto che i suoi avversari sottovalutano – è soprattutto unpredictable, cioè imprevedibile. Per inciso, imprevedibile (“unpredictable”) è esattamente la definizione che l’allora candidato Trump diede nel 2016, in una lunga intervista rilasciata all’editorial board del Washington Post, per descrivere le caratteristiche della sua futura politica estera.


E aveva detto il vero, va riconosciuto. Nei suoi quattro anni alla Casa Bianca, infatti, non sempre predicò bene, ma in compenso razzolò benissimo. Non uno dei “cattivi” del mondo, durante il suo mandato, guadagnò posizioni; l’operazione “Accordi di Abramo”, in Medio Oriente, fu eccellente e capace di coinvolgere Gerusalemme e Riad isolando saggiamente Teheran (purtroppo, come si sa, Biden avrebbe poi smontato tutto). E anche rispetto alla Russia, i comportamenti reali di Trump sono sempre stati assai migliori dei suoi discorsi: è stato Trump a criticare la Germania e l’Ue per la loro eccessiva dipendenza dal gas di Mosca (e aveva ragione lui); è stato sempre Trump a rifornire saggiamente Kiev degli efficacissimi missili javelin; ed è stato ancora Trump a spiegare a Bruxelles-Parigi-Berlino che non potevano permettersi ambiguità e posizionamenti “terzi” tra Occidente e potenze eurasiatiche.

UNO E CENTOMILA DONALD
Certo, Trump è stato inseguito per anni dalle ombre del Russiagate, cioè di una presunta collusione con Mosca: ma quelle accuse sono rimaste senza prove, e i suoi comportamenti alla Casa Bianca sono stati limpidi. Non altrettanto si può dire – purtroppo – di alcuni suoi recenti interventi in questo 2024, in cui la (fondatissima) critica a Biden e ai leader occidentali è talora sconfinata in un (non condivisibile) ammiccamento a Putin. Pirandellianamente parlando, dunque, quale tra i molti Trump possibili può vincere il prossimo novembre? Di nuovo, non possiamo saperlo: magari capiremo qualcosa dalla scelta del suo candidato vicepresidente, e ad esempio se l’opzione cadesse su Marco Rubio (dai chiari connotati anti-tasse e pro-Occidente) si tratterebbe di un segnale eccellente.


Ma demonizzare Trump a priori è ridicolo per almeno due fondamentali ragioni. La prima: il volpone Donald è tutto tranne che sciocco o banale. Nel dibattito con Biden, ad esempio, non ha infierito inutilmente. Vedendo che il suo avversario collassava, Trump ha mostrato un notevole autocontrollo, un’autodisciplina che dice molto della sua intelligenza.
La seconda: dietro Trump c’è un popolo immenso, forse mezza America, forse qualcosa in più. E – questo è il modesto suggerimento che vorremmo sottoporre ai demonizzatori professionali – come si fa a non comprendere che un popolo a lungo inascoltato, o al quale si dia la sensazione di considerarlo – altro che sovrano... – nella migliore delle ipotesi un campione sondaggistico, poi a un certo punto possa “vendicarsi”?


Come fanno – mi chiedo – i sostenitori di questa tesi a non sentire l’atmosfera che circonda ad esempio gli interventi e i rallies di Trump? Qualunque cosa (buona o meno buona) pensiate di lui, provate a seguire un suo comizio, con la raccomandazione di concentrarvi nell’osservazione del suo pubblico più ancora che in quella del protagonista. Scoprirete che Trump è – per paradosso – molto più moderato dei suoi sostenitori. I quali sono letteralmente incazzati-imbufaliti-scatenati non solo contro gli avversari, ma verso tutto ciò che a loro appaia parte di un vecchio establishment, o comunque contro quello che gli sembri lontano da loro, dalla loro sensibilità e forma mentis, da ciò che a torto o a ragione paia loro estraneo al controllo e alla decisione popolare. Guardate le magliette che indossano: “Trump vs everybody”, cioè “Trump contro tutti”, oppure “We’re pissed off”, cioè “siamo incazzati, siamo stufi”. Ecco, che si fa con questi elettori? Li si demonizza oli si ascolta? E questo vale anche alle nostre latitudini. Certo, gli Usa sono molto diversi dall’Europa: ma solo chi è molto distratto o poco collegato con la realtà può pensare di anestetizzare -sterilizzare -neutralizzare questi sentimenti attraverso un’escogitazione tecnica, attraverso un demiurgo calato dall’alto, attraverso interventi di microchirurgia da svolgere su un paziente addormentato e immobilizzato. La democrazia non funziona così: perché il “paziente” (che tra l’altro, secondo le nostre celebratissime costituzioni, sarebbe “sovrano”) a un certo punto si sveglia, si ribella, e usa quel che trova come strumento per farsi giustizia sommaria. E questo andrebbe ribadito a chi, tra Berlino -Parigi -Bruxelles, pensa di agire da Grande Anestesista.

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