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Assange, ora abbiamo la prova: i nemici degli Usa non muoiono in cella

Maurizio Stefanini
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"E allora Assange?", era stato un diffuso commento dopo la morte di Navalny, ed è dunque quasi inevitabile che nella grande curva da stadio dei Social mondiali una risposta che galoppa sia: "Assange è libero, Navalny è morto". In realtà, appunto, al di fuori del tifo va rilevato come la differenza Russia-Stati Uniti non sia che una delle tante asimmetrie tra i due.

Navalny, in particolare, era un leader politico che contestava le scelte del suo governo cercando di mobilitare l’opinione pubblica con mezzi non convenzionali, e in un Paese libero la sua attività non avrebbe suscitato alcun problema penale. Al massimo, forse, qualche rischio di querela.

Assange era un hacker che in nome di motivi ideali ha però rivelato materiale riservato di un governo che non era il suo, in maniera che per la gran parte sarebbe reato dovunque. Soprattutto, però, Assange ha cercato sistematicamente di evitare le conseguenze dei suoi atti: prima chiedendo rifugio in una ambasciata; ora patteggiandosi colpevole, pur di poter tornare libero. Umanissimo, per carità. Ma che altra personalità ha un Navalny che era libero, e ha accettato di tornare nel Paese dove lo avevano avvelenato.

Se Assange fosse stato Navalny, si sarebbe fatto estradare negli Usa apposta per trasformare il suo processo in atto di accusa di chilo accusava. Se Navalny fosse stato Assange, non sarebbe tornato.

Mutatis mutandis, evoca quando Pannella candidò due detenuti in attesa di giudizio che si chiamavano Toni Negri e Enzo Tortora. Entrambi furono eletti, entrambi uscirono dal carcere, a entrambi fu chiesto di rinunciare alla immunità per portare lo scandalo al massimo. Negri rifiutò: alla Assange, scappò a Parigi. Tortora accettò: alla Navalny, tornò in galera. La battaglia lì era la stessa. Ma se si smosse qualcosa fu grazie a Tortora Navalny. Non certo grazie a Negri Assange.

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