Putin e Xi non festeggiano: la svolta a destra frena la loro brama di avanzare in Europa
Chissà se, nel segreto dell'urna, qualche elettore particolarmente sensibile continentale non abbia ravvisato qualche sinistra presenza al momento del voto. Perché tentare di guidargli la mano con la matita, in senso metaforico, qualcuno insieme a loro c'era. Poggiati sul trespolo, ad osservare le loro scelte, c'erano due gufi: Vladimir Putin e Xi Jinping. Perché nell'inedita tornata col frastuono delle bombe in sottofondo politica e geopolitica in Europa sono fuse. Al leader russo e a quello cinese i nuovi eventuali equilibri politici nel continente che sognano di sbranare da tempo interessano, e non poco. Se non altro per capire le strategie da adottare in futuro e gli interlocutori da sedurre. Siccome si è parlato molto delle ingerenze straniere per influenzare la tornata, alla luce dei risultati una cosa possiamo dirla: oi troll orientali non sono stati ingaggiati per davvero dai rispettivi governi, oppure sarebbe meglio per loro si dessero all'ippica. Perché bene o male, nonostante l'assottigliamento del fronte centrista e la crescita delle destre di mezza Europa (alcune, poche, filorusse, ma la maggior parte pro-Kiev) non si può certo parlare di una rivoluzione geostrategica.
L'impalcatura di fondo del Parlamento Ue resterà la stessa, con una salda maggioranza costituita dall'alleanza tra il centrodestra del Ppe, i socialisti di S&P ei liberali di Renew Europe. Certo, bisognerà capire in che modo si inseriranno le destre, soprattutto quella italiana e quella francese, con Giorgia Meloni e Marine Le Pen che, volenti o nolenti, qualche ragionamento su un'eventuale coalizione futura dovrà farla. Ma una cosa è sicura: per sedersi ai tavoli che contano bisognerà dimostrare di resistere alle sirene degli autocrati. Fratelli d'Italia in questo senso è già saldamente piazzato su posizioni atlantiste, e, nonostante l'iniziale diaspora degli elettori di destra-destra ammaliati da Putin, negli ultimi due anni il numero di consensi della fiamma non è mai calato. Discorso diverso per il Rassemblement National, che negli scorsi anni una certa simpatia per Putin non l'aveva granché nascosta, e che ancora oggi, parlando di pace in Ucraina, anche per controbilanciare l'estro bellicista del rivale Macron, è considerato dai detrattori 'emissaria' del Cremlino. Fosse anche vero, l'erede di Jean-Marie dovrebbe decidere: o continuare a stare fuori dalla politica che conta, e sarebbe un seppuku vista la strada mai come stavolta spianata verso l'Eliseo (si vota nel 2027, tra una vita, ma a Bruxelles il RN ha più che doppiato En Marche), o lavorare una volta per tutte con le destre moderate europee alla costruzione di una Unione forte, sovrana e indipendente ma comunque inserita senza se e senza ma nel blocco Atlantico. La seconda opzione darebbe vita a uno scenario interessante, perché convincerebbe della necessità di uno sdoganamento anche alcune delle altre destre in rampa di lancio in Ue. Non ultima alternativa per la Germania. Le Pen, approfittando dello scivolone nostalgico delle SS dello spitzenkandidat di AfD Maximilian Krah, si è tolta dalle scatole i tedeschi dal gruppo europeo Identità e Democrazia. Ma alla luce dell'exploit elettorale e del pieno di seggi ottenuti, i teutonici, loro sì decisamente filorussi, sanno bene che faranno gola a tutti. E la prima cosa che hanno fatto qual è stata? Diseredare Krah. Un primo passo verso la legittimazione istituzionale. Insomma, per contare qualcosa, a destra come a sinistra, bisognerà mitigarsi. Va bene criticare l'Ue così com'è, va bene lavorare per riformarla dall'interno, va bene farla svoltare su temi etici, economia, migrazioni, ambiente ecc., ma vietatissimo solidarizzare con il “nemico”.
Il vento di Giorgia arriva a Bruxelles: siamo di fronte a un Big Bang
Putin e Xi Jinping, comunque, qualche numero di telefono tra i preferiti in rubrica ancora ce l'avranno. Innanzitutto quello di Viktor Orban. In Ungheria Fidesz ha fatto di nuovo un boom di consensi. Budapest non ha mai smesso di interloquire con la Russia e allo stesso tempo è il cavallo di Troia economico della Cina in Europa. Le politiche di Orbán, impopolarissime dopo l'invasione russa dell'Ucraina, hanno iniziato a prendere slancio di fronte al congelamento del fronte, ai contraccolpi negativi dal punto di vista economico per l'Europa, ai timori di una Terza guerra mondiale. Su queste basi Orbán, pur non potendo più fare asse con la Polonia, può riformare per tre quarti il Gruppo di Visegrad, potendo contare su Robert Fico in Slovacchia e su Andrej Babis in Cechia (quest'ultimo, pur essendo con i liberali di Renew, non è mai stato ostile a Mosca). Altri movimenti pronti ad accodarsi però sono pochi e disorganizzati. Attenzione allora oltre confine. Perché per fare proseliti guarderanno ai Paesi che l'Ue punta ad integrare: Bosnia, Serbia, Georgia e Moldavia.