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Rafah, cinque ragioni per liberare l'ultima roccaforte di Hamas

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Nel tardo pomeriggio di ieri, è sembrato – per qualche decina di minuti – che, all’ultimo istante, Hamas fosse stata costretta dalla determinazione di Israele a piegarsi e a dire un genuino sì alla proposta di cessate il fuoco. Se così fosse stato, se ne sarebbe dovuta trarre una conseguenza logica: dare ragione a Bibi Netanyahu e torto a tutti gli altri (Onu, Ue, Casa Bianca bideniana).

Avrebbe cioè avuto ragione chi, a Gerusalemme, riteneva e ritiene che con i terroristi si debba usare solo il linguaggio della forza, e soprattutto che si debba operare per vincere. E vincere vuol dire appunto questo: prevalere nettamente sul campo, sottrarre al terrore le sue basi operative, se possibile eliminare i capi dei nemici, o almeno metterli in condizione di non nuocere oltre.

 

 

Solo dinanzi a una pressione del genere, a una deterrenza fortissima, a una minaccia schiacciante, si può ragionevolmente sperare in un cedimento delle belve sanguinarie. Anche perché molto induce a pensare che proprio la presenza fisica di alcuni leader di Hamas a Rafah possa indurre il gruppo terroristico a tentare di guadagnare tempo e salvare il salvabile (oltre che la pelle). Stadi fatto che, dopo una mezz’ora, Israele ha sollevato pesanti dubbi su un ennesimo possibile bluff di Hamas. (...)

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