Ecco il Baudelaire che più somiglia a Baudelaire
Diversamente dalle opere degli scrittori italiani del passato, che restano immutate nel tempo, quelle tradotte vivono un’eterna modernità. È il destino vincente dei classici stranieri che decidiamo ciclicamente di riportare in vita nella nostra lingua. Sta qui uno dei motivi per cui una volta tradotti, alcuni libri vivono una rinnovata giovinezza e splendore. A distanza di secoli, la traduzione ricanta la trama e i segreti del testo con la vitalità di espressioni figlie di altre sensibilità. Perché nessuna traduzione di ieri può essere replicata a lungo senza essere smentita dall’usura della parola originaria. Lo sguardo di un bravo interprete accetta sempre, e con favore, la missione di misurarsi con la lingua di un’altra epoca per darle, senza sfigurarla, la sua intonazione lirica, fino a farla rivivere, talvolta, di luce propria.
OLTRAGGIO ALLA MORALE
È ciò che è accaduto a Milo De Angelis che, accanto alla celebratissima e sapiente mano poetica, non ha mai fatto mancare l’altra mano, quella di chi si presta a un esercizio letterario non meno oneroso, quello del traduttore. È di oggi la sua versione di quel gioco di specchi e riflessi tra le maschere e i personaggi della comédie humaine, messa in versi dal gran burattinaio Charles Baudelaire con I Fiori del Male (Mondadori, € 22, pp. 440), uno dei capolavori della letteratura francese, nonostante le note censure che costarono ammende sia all’autore che all’editore per aver oltraggiato la morale pubblica con un linguaggio troppo realista. Dopo le traduzioni dei francesi Blanchot, Racine, La Rochelle, Maeterlinck, di autori antichi come Virgilio, Eschilo, Claudiano, e più recentemente Lucrezio, con una strepitosa versione del De rerum natura, De Angelis torna a Baudelaire dopo aver tradotto anni fa I paradisi artificiali. Questa sua interpretazione de I Fiori del Male, stupisce sia per la fedeltà ossessiva all’originale sia, in filigrana, per essersi rivelata l’occasione per mettere ulteriormente a fuoco - immaginiamo- la propria opera poetica. La traduzione, soprattutto per un poeta, è scavo linguistico fraterno, mai accademico. In questa prospettiva De Angelis ci consegna- paradossalmente - la sorpresa di un Baudelaire aderentissimo a Baudelaire. E, nello stesso tempo, quasi un se stesso traslato, nel senso che leggendo questa traduzione, si ha la sensazione di ascoltare la voce di De Angelis mentre ripete qualcosa che gli somiglia.
Nel volume non ci sono cenni sulla vita del poeta francese nato nel 1821 e morto tra le braccia della madre all’età di 46 anni, ma solo le poesie de I Fiori del Male svincolate da qualsiasi e pur isolato riferimento biografico. Nessuna notizia sulle quattro donne amate, sulla droga, sulla dissipazione del patrimonio, sulla vita spericolata condotta con l’eleganza del dandy, o altro. De Angelis entra nella poesia di Baudelaire a gamba tesa, senza farsi distrarre da tentazioni e incursioni nelle sue avventure e disavventure, private ed editoriali. La vita vissuta già scorre come sangue nella parola poetica.
Il Baudelaire de I Fiori del Male è l’uomo che viaggiando scopre la nostra immagine formata da un’oasi di orrore dentro un deserto di noia. La stessa noia che, in una delle tante poesie sullo spleen, assume “le proporzioni dell’immortalità”. Baudelaire è il poeta invaso dalla malinconia, esiliato sia in mezzo ai suoni e alle ombre del mondo che fra le pareti della propria casa. Il poeta è come l’albatro, il principe delle nuvole «che abita la tempesta e se la ride dell’arciere». Il suo cervello è «una piramide, una cripta immensa / che contiene più morti della fossa comune». Tuttavia il poeta è affascinato dalla bellezza femminile in tutte le sue declinazioni e forme. Le poesie dedicate alla donna sono un campionario meno salottiero e divertito del catalogo mozartiano. Accanto ad attrici, danzatrici e contesse, sfilano quelle eccentriche, maledette, spettrali, o quelle esotiche o troppo gaie. Basti qui ricordare una poesia esemplare come A una passante (vedi il testo sotto, ndr). Per De Angelis, questi versi stanno alla poesia francese come quelli de L’infinito di Leopardi stanno a quella italiana peri tesori nascosti che s’impongono dopo ogni nuova lettura.
Quel volto femminile è «il prototipo delle rose che non abbiamo colto, di ciò che ci è sfuggito per un attimo e ha fatto di quest’attimo il volto della nostra solitudine, il pozzo della nostra caduta, il porto vicino e non raggiunto, il paradiso negato per sempre». Sullo sfondo dei versi di Baudelaire si staglia la maestà di Parigi, e non più la scenografia arcadica, idilliaca ed elegiaca di tanta poesia ormai superata dal tempo, altro grande tema. Mentre il tempo si «mangia la vita», e «vince senza barare, a ogni colpo», i fiori del male tacciono e urlano.
Con la violenza delle strade e delle piazze e con le sue luci, Parigi assume i tratti di una città tirannica che «governa il destino dei suoi abitanti». Così è pure Satana, che manda in fumo «il prezioso metallo della nostra volontà». Nei Fiori l’uomo appare scisso, perché ogni cosa è silenzio e grido, per sua natura doppia: «Doppia la città, necessaria e detestata; doppia è la donna, vissuta con adorazione e con disprezzo; doppia è la poesia, sentita come terra dell’assoluto e come terra del trauma e della parola smarrita». Sta qui il senso dello spleen, che attraversa come una corrente elettrica l’opera di Baudelaire, e sta qui la ferita senza origine di un uomo che cerca nell’antica Grecia la bellezza eterna e invece trova «la carogna di un impiccato».
IL DOPPIO
Con Baudelaire, il doppio non è il compagno segreto, l’ombra o altro, ma ciò che non siamo in quel preciso momento. Non è il sosia, il supplente, o qualcuno che sta dietro o addirittura un’entità inferiore che vive sotto traccia in attesa di risalire. E non è il più forte, né il più fragile. Le due dimensioni entrano di diritto nella stessa effige. Il male e il bene, il paradiso e l’inferno non sono separati, ma coincidenti sullo stesso piano, senza pretesa di sfida.
Così è pure la bellezza, immensa e misera. Il doppio sta nel puntare gli occhi al cielo e cadere nelle buche perché le «nuvole che passano sono meravigliose», come scrive in apertura di un’operetta «tutta testa e tutta coda» come Lo Spleen di Parigi. O nel dialogo La voce, quando già nella culla, accanto alla biblioteca e a una babele di libri, le voci udite sono quella della Terra e dei Sogni. Niente sembra inconciliabile dal momento che il doppio equivale ad essere perdutamente l’uno nell’altro.
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