Zhou Fengsuo: "Sono sopravvissuto a Piazza Tiananmen. Pechino ora è peggio"
«L’arma del governo comunista cinese sono violenza e paura». Zhou Fengsuo scandisce le sillabe in un inglese lento e terso che arriva diritto a destinazione. Parla senza esitazione. I suoi occhi sono colmi di ricordi. Piazza Tiananmen, la notte fra il 3 e il 4 giugno 1989. I carri armati schiacciarono gli studenti che da giorni invocavano libertà. Non si aspettavano quell’epilogo, Zhou fra loro.
Studente nella Università Qinghua di Pechino, era uno dei leader della protesta. Oggi ha 56 anni. Nato a Xi’an, capoluogo della provincia nordoccidentale dello Shaanxi, visse e vide tutto. Gli chiedo: «Quanti morirono in quell’eccidio?». Risponde: «Impossibile saperlo. I sopravvissuti sono stati inghiottiti dalle carceri. Le loro famiglie invecchiano e muoiono. Le prove il regime le ha occultate o distrutte». Ha ragione. Fonti occidentali hanno però avanzato la cifra shock di 10mila vittime. «Il governo mandò contro di noi truppe d’élite».
Come riuscì a uscirne vivo?
«Eravamo saliti sul Monumento agli eroi del popolo. Fioccavano pallottole, i carri avanzavano ma a fatica. Diversi studenti si lanciavano infatti per bloccarne il percorso. Ci protessero. Il Nobel per la Pace, Liu Xiaobo, negoziò una via di fuga. Ma ci dividemmo. Io ero fra chi voleva restare. Arrivarono i soldati a tirarci giù. Conservo una bandiera insanguinata con cui avvolgemmo uno dei caduti. Nella confusione qualcuno cadde, altri, tra cui io, si salvarono».
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E poi?
«Divenni il nemico pubblico n. 5. Passai un anno nella prigione del villaggio di Qincheng, a nordovest di Pechino. Per i primi tre mesi ebbi le manette ai polsi sempre. Morivo dalla fame: cibo scarso e volutamente pessimo. Non uscivamo mai. Ho visto il cielo per meno di 10 giorni in 12 mesi. Stavo male sempre e sempre mi interrogavano con asprezza per piegarmi. Ma sopravvissi per la seconda volta. Fui rilasciato su pressione dell’opinione pubblica per essere spedito in una struttura di rieducazione ideologica nella contea di Yangyuan nella provincia dell’Hebei, a nord. In isolamento, in un luogo remoto. Sopravvissi ancora. Finalmente libero, studiai Ingegneria. Quando fui invitato a studiare Fisica negli Stati Uniti, mi negarono il passaporto. Per cinque anni. Lo ottenni a fine 1994 e in gennaio me ne andai. Sono divenuto cittadino statunitense nel 2002 e l’anno dopo, in California, sono stato battezzato nella Tree of Life Church, protestante, da agnostico che ero».
Negli Stati Uniti coordina due organizzazioni...
«Sono direttore esecutivo di «Human Rights in China» a New York. Nacque nel marzo 1989, prima di Tiananmen, da alcuni studenti cinesi in America che volevano fare di più per i prigionieri di coscienza in Cina. Nel 2004 ho co-fondato Humanitarian China per sostenere economicamente i prigionieri politici e le loro famiglie in Cina. Ne assistiamo un centinaio ogni anno, più di mille in tutto. Il regime li vuole impaurire, isolare: noi diamo loro un senso di appartenenza.
Anche aiuto legale?
«Un po’, ma è sempre più difficile trovare avvocati disponibili. Il famoso «709 Crackdown», la repressione contro gli avvocati iniziata il 9 luglio 2015, ha cambiato gli scenari».
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Com’è la situazione in Cina oggi?
«Molto brutta. Pensavamo fosse brutta un anno fa, ma 12 mesi dopo è peggio. La gestione del potere del presidente Xi Jinping è un crescendo che pare inarrestabile. Sfruttando le misure anti-Covid e la tecnologia digitale, oramai controlla virtualmente tutti i cittadini, che vengono divisi e sorvegliati. Una presa totale. Si può essere arrestati per una cena “non autorizzata”, come accadde nel dicembre 2019 agli avvocati per i diritti umani Xu Zhiyong e Ding Jiaxi, condannati rispettivamente a 14 e 12 anni di carcere. Ed è la seconda volta che ci finiscono. Ci sono gruppi di studenti comunisti che difendono i diritti dei lavoratori e che il governo comunista arresta come agitatori. La Repubblica Popolare Cinese è oggi un regime totalitario dotato di un potere che così vasto e pervasivo non si è mai visto in tutta la storia umana».
Ma è Xi un comunista particolarmente cattivo o lo è particolarmente il sistema comunista?
«Xi non è affatto una sorpresa. Qualcuno lo credeva un riformatore, anche fra i dissidenti, visto che suo padre era stato epurato, ma è un figlio legittimo del grande macellaio Mao Zedong. Mica però solo lui. Lo sono tutti i dirigenti comunisti del dopo-Mao. Compreso Deng Xiaoping, spesso dipinto come un innovatore. Concesse certe misure di libertà economica, ma fu un altro massacratore. Iniziò con la lotta alla corruzione nel 1983, in nome della quale incarcerò e uccise. Poi Tiananmen. E poi il dopo-Tiananmen, quando pronunciò parole storiche: “Uccideremmo 200mila persone in cambio di 20 anni di stabilità”. La chiave è sempre la ”sicurezza”: dello Stato, e costa ogni volta cadaveri su cadaveri di chi chiede solo libertà. È la natura del regime comunista, non cambia mai. Mao, Deng, Hu Jintao, Jiang Zemin, Xi: sono tutti uguali. Varia un po’ magari la retorica, ma quella incanta solo all’estero. Ogni tanto l’Occidente sceglie di mentirsi credendo alle bugie del regime. Il comunismo, invece, non cambia mai. Xi è un prodotto naturale di un sistema malvagio».
Lei ha speso una vita a lottare per la libertà. Chi glielo ha fatto fare?
«È il mio dovere. Lo debbo al mio Paese, che amo».