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Julian Assange non è il nostro Navalny
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Ora sapete – a onor del vero, lo sapevate anche prima – quale credibilità avessero i commentatori e i gazzettieri che, nel febbraio scorso, quando l’Alta Corte di Giustizia britannica è stata chiamata a pronunciarsi sulla richiesta statunitense di estradare Julian Assange, si erano affrettati a descrivere Assange come il nostro Aleksej Navalny, e quindi – per logica estensione – le nostre democrazie occidentali come equivalenti e intercambiabili rispetto all’autocrazia russa.
Il giochino retorico dei nostri rossobruni (a cui l’Occidente fa orrore, ma che – chissà come mai – stentano a trasferirsi nei “paradisi” di Pechino, Teheran e Mosca) era insidioso, ingannevole, suggestivo, ma in ultima analisi rozzissimo, grossolano, intellettualmente disonesto: parificare Londra e Washington a Mosca, affermare un generico “tutto il mondo è paese”, negare ogni differenza tra (sia pur imperfette) democrazie e (sia pur conclamate) dittature. La “prova” del loro ragionamento stava nel trattamento dei dissidenti o dei dissenzienti: sequestrati di qua e di là, perseguitati a tutte le latitudini, senza distinzioni. A testimonianza di una generica nequizia del potere, ma senza apprezzabili differenze tra “noi” e “loro” (...)
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