Alexei Navalny, un ribelle e un martire: sapeva che sarebbe finita così
Secondo la mentalità dell’uomo della strada russo Alexej Navalny se l’è cercata. Una mentalità forgiata dall’assolutismo zarista, dal bolscevismo rivoluzionario, dal comunismo stalinista, e dalla proverbiale sopportazione del russo medio. D’altronde Vladimir Putin proviene dal Kgb, e per quanto non ufficiale di primo piano ha assorbito e fatte sue metodiche affinate e consolidate nel tempo, secondo logiche che sfuggono all’osservatore occidentale, anche il più smaliziato. Navalny forse se l’era cercata, ma era comunque rimasto se stesso con qualche correzione tattica, una sintesi non sempre equilibrata tra impegno, coerenza e spregiudicatezza, un po’ Pugacëv un po’ Stenka Razin. Le ha tentate tutte per abbattere il nemico, lo zar senza corona del Cremlino nella stanza dei bottoni, facendo leva sul nazionalismo russo reinterpretato diversamente da Putin, sul ricambio democratico, sulla legalità e sulla piazza, diventando il simbolo di un’opposizione che ha voce ma non forza. È morto ieri a 48 anni in una colonia penale al di là del Circolo polare artico, esilio con le sbarre ai confini del mondo e lontano dal mondo.
L’ARIA DEL GULAG
Colonia penale è un eufemismo del più sinistro gulag di cui è la versione riveduta ma non corretta. Morto ufficialmente per embolia: niente di nuovo sotto il sole della Grande Madre Russia che Navalny voleva riformare per via democratica e con qualche strappo. Un termine medico che spiega tutto senza spiegare nulla e non fa fare troppe domande alle quali non rispondere. Nell’Urss dei gulag si moriva e basta, e si muore ancora, soprattutto se si dà fastidio al potere che da quelle latitudini non ammette controcanti. I Romanov, se non impiccavano e fucilavano, inviavano in fortezza e in Siberia, la nomenklatura sovietica faceva altrettanto e spediva pure in manicomio le teste pensanti, mica i matti. Quanto alle malattie, spesso pròvvide, se letali partivano tutte con un raffreddore retroattivo, per avere il tempo di sistemare le cose all’interno delle impenetrabili mura del Cremlino.
La scomparsa di Navalny, per quanto enigma avvolto da un mistero, è una provvida sventura che non a caso fa sussurrare che assomiglia a un regalo su un vassoio d’argento servito a Putin alla vigilia della tornata elettorale presidenziale. Avrebbe vinto a mani basse, certo, ma senza Navalny non c’è neppure un residuo di dubbio. E si sa che anche le mosche cocchiere sono fastidiose, per quanto innocue, e per cacciarle basta un colpo di coda. All’attivista di colpi di coda ne hanno dati parecchi, anche sotto la cintura, eppure lui ha continuato a ronzare sulla testa del rifondatore della potenza della Russia senza darsene per inteso, confidando in una notorietà internazionale che però non ha impedito né le manette, né le mandate alla porta della cella, né la deportazione. Il credito goduto all’estero non l’ha messo neppure al riparo il 27 aprile 2017 da un’aggressione con una vernice spray chimicamente corretta che l’ha quasi reso cieco da un occhio, e neppure da un quasi riuscito tentativo di omicidio il 20 agosto 2020, con raffinato metodo di avvelenamento con agente nervino durante un viaggio in aereo da Tomsk a Mosca. Finì in coma, forse per un errore nella tempistica di un piano che non avrebbe dovuto dargli scampo certamente non elaborato da dilettanti (si parlò apertamente del coinvolgimento dei servizi segreti, il FSB, erede del KGB), e si mobilitò l’Europa per garantirgli cure adeguate.
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IL SALVATAGGIO IN GERMANIA
La Germania, dopo un braccio di ferro diplomatico e aver disinnescato il veto dei medici russi sul trasporto a Berlino, riuscì ad assicurargli un’assistenza di livello e forse a salvargli la vita che lui ha subito ha rimesso in gioco in un altro impari braccio di ferro con Putin e il suo apparato, già sfidato nelle presidenziali del 2012 (portando 30.000 persone in piazza) e direttamente nel 2017, alle comunali di Mosca nel 2013 e col referendum costituzionale del 2020. Ostacolato politicamente e giudiziariamente, era diventato il nemico pubblico numero uno dell’uomo del Cremlino più che avversario realmente pericoloso, se si esclude la sua presa sull’opinione pubblica, soprattutto oltreconfine. Di lui è stato detto che fosse un nazionalista crudo nel trattare questioni che riguardavano altri popoli del mosaico che una volta costituiva l’Urss, spesso anche verbalmente esplicito, ma pure si era schierato nel 2014 contro l’annessione della Crimea, a favore del movimento Black Lives Matter e persino al fianco di Donald Trump perché ostracizzato da Twitter.
Liberale non moderato ma moderabile, che sognava la Russia del Futuro, dal nome del suo partito fondato nel 2013 e di cui è stato leader fino all’ultimo giorno, magari con il ritorno sotto le ali dell’aquila bicipite di Ucraina e Bielorussia, nel 2018 aveva incassato un’effimera vittoria con la pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo che condannava la Russia a risarcirlo di oltre 60.000 euro, ma niente ha potuto metterlo al riparo da un’offensiva giudiziaria forse non casuale che l’ha portato alla sbarra appena rientrato dalle cure in Germania per aver violato l’obbligo di firma per un procedimento per appropriazione indebita nell’attività commerciale col fratello (condanna a 3 anni e 6 mesi).
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PREMIO SAKHAROV
Ha risposto all’arresto, non il primo nella sua carriera di attivista, con uno sciopero della fame, e superata la crisi di un preoccupante quadro clinico, è stato riportato in carcere. Nel 2021 il Parlamento Europeo lo ha insignito del Premio Sakharov, ma Navalny non era né Sakharov né Solženicyn, anche se all’orizzonte anche per lui si stava schiudendo l’Arcipelago gulag. Accusato apertamente di attività terroristica, ha rimediato una prima condanna nel 2021 a 2 anni e 8 mesi per la storia delle firme, poi nel 2022 a 9 anni e nel 2023 a 19 annidi reclusione con le accuse «presumibili» di aver finanziato attività di estremisti, di aver incitato all’estremismo e pure di aver riabilitato l’ideologia nazista. Da quelle parti il sospetto basta e avanza. Ovviamente carcere duro, nella colonia penale 6 di massima sicurezza, a Melekhovo, poco meno di un villaggio.
In attesa delle pronunce sui ricorsi, rinviati e disattesi, Navalny letteralmente era scomparso dietro a una cortina di silenzio della autorità a dicembre dello scorso anno, per rimaterializzarsi nella sperduta colonia penale 3 chiamata non casualmente “Lupo polare”, raggiunta con un interminabile viaggio in treno in condizioni inimmaginabili. L’ultimo a vederlo è stato il suo avvocato. Nonostante la detenzione era impegnato in un disegno di ostacolo a Putin a un nuovo mandato alla presidenza, una campagna di anticorruzione mirata proprio a lui, con un’intensa e variegata opera di propaganda, battaglia condivisa come tutte le altre con la moglie Julija che è stata la sua voce quando lui non poteva comunicare con l’esterno, da cui ha avuto due figli: Daria e Zakhar. Poi ieri, durante la passeggiata, l’embolo fatale, vero o presunto, che certamente non si era cercato. Al Cremlino difficilmente verseranno lacrime per lui, candidato nel 2021 al Premio Nobel perla pace, si può solo immaginare con quanta soddisfazione di Putin.
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