Raphael Schutz: "La Santa Sede parla solo di Gaza e non vede l'Iran"
Alla domanda «come va?», Raphael Schutz, ambasciatore di Israele presso la Santa Sede, risponde «bene, compatibilmente con le circostanze». L’impressione, infatti, è che le relazioni diplomatiche tra Israele e la Santa Sede abbiano appena toccato uno dei punti più bassi di una storia iniziata nel 1993. Di certo è il punto più basso dal 7 ottobre, giorno del pogrom scatenato dai terroristi di Hamas.
Le parole pronunciate martedì dal cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano, hanno allargato una ferita già aperta. Il responsabile della politica estera della Santa Sede ha detto che il diritto alla difesa invocato da Israele per «giustificare» l’operazione a Gaza deve essere proporzionato, e «certamente con trentamila morti non lo è stato». La risposta dell’ambasciata di Schutz è arrivata ieri con una nota in cui definisce la dichiarazione di Parolin «deplorevole», poiché «giudicare la legittimità di una guerra senza tenere conto di tutte le circostanze e i dati rilevanti porta inevitabilmente a conclusioni errate».
Tra questi «dati rilevanti» si ricorda che a Gaza «non c’è quasi nessuna infrastruttura civile che non sia stata utilizzata da Hamas per i suoi piani criminali, inclusi ospedali, scuole, luoghi di culto», e che «i civili di Gaza hanno partecipato attivamente all’invasione non provocata del 7 ottobre nel territorio israeliano, uccidendo, violentando e prendendo civili in ostaggio». Crimini di guerra, a differenza delle operazioni dell’esercito israeliano che «si svolgono nel pieno rispetto del diritto internazionale». Con un editoriale sull’Osservatore Romano, la Santa Sede ha tenuto il punto, replicando che il diritto di Israele alla difesa «non può giustificare questa carneficina».
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Ambasciatore Schutz, dopo questo scambio così duro, ha avuto contatti con monsignor Parolin o altri rappresentanti della Santa Sede?
«La risposta è semplice: no».
Con quale aggettivo descrive il rapporto tra Israele e la Santa Sede oggi?
«Gli aggettivi tendono ad essere un po’ semplicistici.
Diciamo che dal 7 ottobre, accanto ad alcuni elementi positivi nelle nostre relazioni, ci sono stati aspetti sotto i quali il quadro della situazione dipinto dalla Santa Sede avrebbe potuto essere migliore».
Iniziamo dagli elementi positivi.
«Ad esempio l’insistenza della Santa Sede riguardo alla necessità di rilasciare immediatamente tutti gli ostaggi israeliani. E la posizione molto chiara contro l’antisemitismo, ripetuta più volte».
Dov’è che, invece, ci sono stati problemi?
«Direi che c’è un deficit di empatia, se posso descriverlo in questo modo, riguardo a ciò che sta accadendo in Israele dal 7 ottobre. È evidente anche in un certo uso del linguaggio, quando i portavoce della Santa Sede descrivono ciò che sta accadendo come la “guerra a Gaza”».
Non lo è?
«Dal nostro punto di vista, che credo rifletta la verità, questa non è una guerra a Gaza, ma è una guerra combattuta contro Israele da almeno quattro fronti: Gaza, Libano, Yemen e Siria. Tutti questi fronti sono attivi e stanno attaccando Israele con fuoco armato fin dal 7 ottobre. Quella che sta accadendo è una guerra combattuta contro Israele e orchestrata dall’Iran».
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Il Vaticano non vede la responsabilità dell’Iran?
«Non necessariamente l’Iran decide ogni missile che viene lanciato, ma l’Iran è sicuramente la “mente” che rende tutto questo possibile. Questo è un punto fondamentale, è uno dei problemi più importanti. L’Iran ha contribuito molto alla capacità militare di Hamas, di Hezbollah in Libano, degli Huthi in Yemen e delle milizie in Siria. Ferire Israele e farlo sanguinare fa sicuramente parte della “grande visione”, chiamiamola così, dell’Iran in Medio Oriente. Quindi chi parla ripetutamente solo di Gaza riduce le dimensioni dell’evento. Ed è il primo errore».
Ce n’è un secondo, quindi.
«Sì. Quando ci si limita a parlare di Gaza, non menzionando le città israeliane e i kibbutzim che sono stati brutalmente invasi e attaccati il 7 ottobre, si crea, anche in Israele, l’impressione che ci sia meno empatia verso le sofferenze che stanno vivendo gli israeliani. Tutta l’attenzione si concentra sulla sofferenza degli abitanti di Gaza, e non sulle sofferenze degli sfollati israeliani, quelli del sud che sono stati attaccati da Hamas e quelli che nel nord sono stati attaccati da Hezbollah. In entrambe le parti di Israele le persone hanno dovuto abbandonare le case e cercare rifugio dai parenti o negli alberghi, o in altri posti che non possono essere una soluzione».
Il fatto che nella Santa Sede nessuno parli di questo pesa nelle vostre relazioni?
«Sì. Quando tutto questo, che sta avendo un impatto molto forte sulla società israeliana, non viene nemmeno menzionato, il risultato evidente è quello che io chiamo un deficit di empatia. Ed è il motivo per cui sostengo che sarebbe opportuno che qualcuno almeno dicesse qualcosa, su tutti i temi di cui le ho appena parlato».