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Onu, l'inutile assemblea si inchina alla Cina e scorda i diritti umani

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Marco Respinti
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Alla testa di una delegazione facente capo a una ventina di ministeri, l’ambasciatore al Palazzo delle Nazioni di Ginevra, Chen Xu, magnifica la sua Cina comunista per avere «sradicato la povertà assoluta» ben «10 anni prima di quanto programmato», per il rispetto del diritto, per le «elezioni democratiche» e per la libertà religiosa garantita a tutti. Davanti a lui sono iscritti a parlare 160 Paesi (dei 193 membri delle Nazioni Unite) e ognuno ha solo 45 secondi. L’ambasciatore e i suoi corifei godono, invece, di 70 minuti. Dura quasi quattro ore.

La stragrande maggioranza dei 160 digerisce con comodo la minestra riscaldata dell’ambasciatore, ridestandosi dal chimo e dal chilo per congratularsi dei traguardi raggiunti e dei finanziamenti ricevuti. A quella mensa gremita l’unico ordine del giorno sarebbero i diritti umani, ma si parla invece molto, moltissimo di economia (eppure ci sono altre sedi Onu dedicate) e solo ogni tanto si cita l’argomento statutario. No, non è un racconto farsesco in chiave distopica: è l’Esame Periodico Universale, la Upr (dalla dizione inglese «Universal Periodic Review»), passato indenne dalla Cina ieri mattina nella sede dell’Onu di Ginevra.
La Upr è uno dei principali strumenti su cui conta il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite.

L’ha istituita l’Assemblea generale dell’Onu assieme al Consiglio stesso il 15 marzo 2006. Ogni quattro anni e mezzo passa in rassegna a turno gli Stati membri per valutare se, come e quanto i diritti umani vengano rispettati. Il Paese esaminato si racconta, i Paesi prenotatisi intervengono. Non si capisce però cosa succeda dopo. Alla fine di questa settimana dovrebbe arrivare un documento finale sulla Cina. Il Consiglio dei diritti umani lo voterà in settembre. Ma poi? Di quali strumenti il Consiglio disponga, qualora fossero necessari biasimo o censura, non è chiaro. Magari non ci sono nemmeno. Si potrebbe obiettare che ogni Napoleone è imperatore a casa propria e che l’Onu non deve intromettersi negli affari altrui, ma allora perché radunare 193 Paesi del mondo attorno a documenti parolai, proclami vuoti, istituzioni chimera? Perché istituire un Consiglio per i diritti umani e un esame periodico di tutti se quegli strumenti sono in grado solo di parlare al vento?

 

 

 

NULLA DI NUOVO

Già nel novembre 2018, all’ora del terzo ciclo della Upr, la Cina passò il turno disinvoltamente. Qualche critica qui, un piccolo neo là, ma tutto sommato promossa. Infatti non è cambiato nulla. Certo non per i suoi cittadini, che già allora non se la passavano bene e che oggi se la passano peggio. Il Consiglio dei diritti umani fece la propria parte, disse serioso che c’erano cosucce da risolvere, Pechino rispose che ci avrebbe pensato e il Consiglio tirò diritto soddisfatto. Il Consiglio dei diritti umani conta 47 Paesi membri. Alcuni i diritti umani neanche sanno cosa siano. L’11 ottobre ne sono stati eletti, per turnazione, 15. Fra loro c’è la Cina, che già era membro. Da ridere, se non facesse pensare a come si vota dentro quel Consiglio. Quanto alla Upr, una “troika”, diversa per ogni Paese esaminato, coordina i lavori. Viene scelta a caso, ma la Cina ha buona stella, visto che la sua è composta da Malawi, Albania e Arabia Saudita. Il Malawi è uno dei tanti pezzi di Africa infeudato a Pechino e nel 2008 girò le spalle a Taiwan riconoscendo ufficialmente la Cina comunista; l’Albania sta sulla rotta balcanica della «Nuova Via della Seta»; e l’Arabia Saudita musulmana addirittura plaude alla repressione cinese degli uiguri musulmani.

 

 

 

ESPIANTI FORZATI

A Ginevra ieri mattina solo Regno Unito, Canada, Stati Uniti, Repubblica ceca e Slovenia hanno chiesto la fine delle persecuzioni di uiguri, tibetani, mongoli, attivisti per i diritti umani e aderenti al Falun Gong. Nessuno però ha nemmeno sfiorato la tragedia dell’espianto forzato di organi umani da prigionieri politici, uno degli aspetti più evidenti e documentati del «genocidio freddo» e multiplo di cui la Cina si macchia da tempo. Lunedì la Reuters aveva denunciato la massiccia campagna di lobbying messa in campo dalla Cina nel Palazzo delle Nazioni per orientare l’esame a proprio favore. Nessun animale è stato maltrattato durante le riprese e non disturbate mai il manovratore.

 

 

 

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