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Javier Milei ricorda ai ricchi che fare soldi non è una colpa di cui vergognarsi

Javier Milei

Sandro Iacometti
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Lasciate perdere la dollarizzazione dell’economia, la chiusura della Banca centrale, la privatizzazione a tappeto di tutto ciò che respira. I progetti del neo presidente argentino, Javier Milei, ispirati non tanto al liberismo classico o alla già tosta Scuola di Chigago di Milton Friedman, ma ad alcune derivazioni ancora più ortodosse che si muovono sul terreno dell’anarco-capitalismo (roba che si dovrebbe studiare nei licei), possono far sorridere o storcere il naso chi, nel corso degli anni, ha imparato a limare gli angoli delle teorie con le asperità del mondo reale.

Ma quello piombato ieri sul placido salotto radical-chic di Davos, dove i ricconi del pianeta fanno a gara a chi dona di più, a chi paga più tasse, a chi si preoccupa di più dei cambiamenti climatici, della disinformazione e dell’aumento delle diseguaglianze, cospargendosi il capo con tonnellate di cenere per aver messo in tasca troppo fatturato fregandosene delle tragedie del mondo, è una sorta di uragano politico-filosofico, un manifesto liberale e liberista che dovrebbe scuotere dal torpore gli imprenditori che gozzovigliano in Svizzera, sonnecchiando nell’ipocrisia di chi vuole abolire la povertà e salvare il pianeta mentre si riempie (legittimamente) le tasche di quattrini.

 

 

Il grido di battaglia di Milei, che non ha nulla a che fare con quello del comandante De Falco, è: «Viva la libertà, ca***». Una sintesi efficace. Ma nel discorso fatto ieri a Davos c’è molto di più. A partire dall’allarme sul ritorno del socialismo, che non è una roba buttata lì, ma la naturale conclusione di una serie di legnate sferrate al capitalismo politicamente corretto, quello che si vergogna di creare ricchezza. Ed ecco allora, la versione di Milei, trasmutato per l’occasione in una specie di ibrido thatcherian-reganiano: «Voglio lanciare un messaggio a tutti gli imprenditori qui presenti e a quelli che ci seguono da ogni parte del pianeta: non lasciatevi intimidire. Non arrendetevi a una casta politica o ai parassiti che vivono delle spese dello Stato. Siete benefattori sociali, siete eroi, siete gli artefici del più straordinario periodo di prosperità che abbiamo mai vissuto. Non lasciate che vi dicano che la vostra ambizione è immorale. Se guadagnate è perché offrite un prodotto migliore a un prezzo migliore, contribuendo così al benessere generale». La lezione si potrebbe chiudere qui.

LO STATO È IL PROBLEMA - Però sarebbe ingeneroso. Perché Milei spiega anche che «lo Stato non è la soluzione, è il problema», che «se si ostacolala concorrenza, il libero funzionamento dei mercati e si attacca la proprietà privata, l’unico destino possibile è la povertà», che «l’Occidente è in pericolo, perché coloro che dovrebbero difendere i valori occidentali si ritrovano cooptati da una visione del mondo che porta inesorabilmente al socialismo e, di conseguenza, alla povertà», che «il capitalismo di libera impresa non è solo l’unico sistema possibile per porre fine alla povertà nel mondo, ma è anche l’unico sistema moralmente desiderabile per farlo». Di qui la domanda delle cento pistole, lanciata dopo aver snocciolato cifre supporto di quella che Milei definisce un’evidenza empirica: «Com’è possibile che il mondo accademico, le organizzazioni internazionali, la politica e la teoria economica demonizzino un sistema che non solo ha fatto uscire il 90% della popolazione mondiale dalla povertà più estrema, ma è anche giusto e moralmente superiore?».

 

 

Fin qui si potrebbe pensare che Milei, per fare bella figura (ha ricevuto persino gli apprezzamenti di Elon Musk: «Una buona spiegazione di ciò che rende i Paesi più prosperosi»), si sia limitato a scopiazzare qua e là i testi di Mises, Hayek e Friedman con una spruzzata di Rothbard. Il che non è da escludere. Però Milei attualizza le teorie del liberismo classico e si scaglia pure contro il «femminismo radicale», che ha portato solo «lavoro per i burocrati» e «un maggiore intervento dello Stato». Oppure contro le nocive teorie ambientaliste, secondo cui «gli esseri umani nuocciono al pianeta». O ancora contro il pensiero woke, che è riuscito a controllare «il senso comune» in chiave anti-Occidentale appropriandosi dei media, della cultura e delle organizzazioni internazionali. Tra la teoria e la pratica, ovviamente, ce ne passa. E Milei di pratica nel suo Paese ne ha tanta da fare per poter dare concretezza ai suoi proclami. Ma quelli dei suoi detrattori non sono davvero meno fantasiosi e astratti. Anzi. E una strigliata del genere all’elite del capitalismo progressista di Davos è una tale boccata di ossigeno che merita gli applausi comunque vada a finire. 

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