Kim Philby, la vita spericolata della spia che credeva solo nella menzogna
Ken Macintyre è una colonna del giornalismo britannico: firma del Times, di cui è già stato corrispondente da New York, Washington e Parigi, dopo altre prove a cavallo tra narrativa e ricostruzione storica, quasi sempre muovendosi nel solco delle migliori spy-stories, ha deciso di dedicare il suo libro più importante a una leggenda della Guerra Fredda (demone o mito, a seconda dei punti di vista ideologici), e cioè a Kim Philby, la spia e il doppio agente più noto del Ventesimo Secolo. Il libro è di qualche anno fa (A spy among friends – Kim Philby and the great betrayal, ed. Bloomsbury), ma è stato appena tradotto in italiano (Una spia tra noi – Kim Philby e il grande tradimento, ed. Neri Pozza, traduzione a cura di Raffaella Vitangeli).
La storia di Philby lascia letteralmente senza fiato. Viene da una famiglia saldamente collocata ai massimi livelli della classe dirigente britannica; studia a Cambridge; esordisce come giornalista al Times, inviato durante la Guerra di Spagna; poco più che ventenne, entra anche nell’ MI6, il servizio segreto che si occupa della foreign intelligence; ma - pressoché contemporaneamente - avvia la sua doppia fedeltà, anzi la sua vera obbedienza, verso il KGB, a cui per trent’anni consecutivi rivelerà ogni segreto.
La traiettoria di Philby è incredibile, al pari della sua abilità. Riesce a farsi assegnare la massima responsabilità dell’MI6 rispetto proprio alla Russia: insomma, è lui l’uomo che deve coordinare lo spionaggio antisovietico. Pochi anni dopo, è ancora lui l’uomo inviato a Washington per coordinare l’intelligence inglese con quella americana, e fa sostanzialmente da mentore al futuro capo della Cia. Si può ritenere che, per tre decenni, Mosca abbia potuto conoscere grazie a lui - in anticipo molte decisioni e valutazioni delle maggiori capitali occidentali.
FETICCIO PER LA PROPAGANDA
A lungo e ripetutamente, riesce a schivare qualsiasi tentativo di incolparlo. Anche quando due suoi amici e colleghi sono scoperti e fuggono in Unione Sovietica (membri del medesimo “Cambridge spy ring”: Burgess e Maclean, altri giovani allevati a Cambridge, reclutati dall’MI6, ma in realtà fedeli a Mosca), Philby riesce prodigiosamente a discolparsi, a sfuggire alle inchieste dell’MI5 (il servizio segreto interno), a mantenere la protezione dell’MI6, a far rimangiare perfino a politici e deputati ogni accusa, a rientrare trionfalmente in servizio, fino alla fuga finale a Mosca (da Beirut, in circostanze rocambolesche) nel 1963, dove resterà fino alla morte, autentico feticcio per la propaganda sovietica (pur con tanti aspetti della sua vita ancora largamente avvolti nel mistero).
La letteratura su di lui è sterminata. E ovviamente, in attesa di una totale declassificazione degli archivi di MI5 e MI6, molto è affidato alle opinioni, alle ricostruzioni, alle ipotesi, ben più che alle prove documentali. Anche Macintyre, come altri prima di lui, illumina con efficacia la parte storica e pubblica dell’avventura di Philby. Il suo essere emblema della Guerra Fredda; la sua dimensione di double -agent, di doppiogiochista reclutato dall’Urss, e a sua volta reclutatore per Mosca; la quantità immensa di vite occidentali (e non solo) spezzate a causa del suo tradimento, in una lunga scia di sangue direttamente o indirettamente imputabile a lui; le personalità straordinarie catturate dal suo fascino (i vertici dei servizi inglesi, o i suoi colleghi e collaboratori, tra i quali - per fare un nome - c’è anche Graham Greene, il grande romanziere, a lungo tra i vice di Philby nella sua sezione); il fatto che l’adesione ideologica al comunismo da parte di Philby abbia resistito ad ogni prova, prima al Patto Ribbentrop-Molotov (un trauma, per un giovane convinto del ruolo di Mosca come argine contro il nazismo, eppure...) e poi all’eliminazione scientifica (le purghe di Stalin) dei suoi stessi primi reclutatori sovietici. Ma nulla ha indotto Philby a deflettere dalle sue intenzioni.
Macintyre ha mano felice nel dipingere l’incredibile charme personale di Philby, capace - in una conferenza stampa che è tuttora materia di studio - di ingannare i media di tutto il mondo, di protestare efficacemente la propria innocenza, di recitare la propria parte in modo magistrale. I suoi interlocutori sovietici definiranno quella conferenza una “breathtaking performance”, un’interpretazione da lasciare senza respiro. Ma tutto questo - in fondo - era già rintracciabile in altri libri su Philby. A mio avviso, Macintyre aggiunge due ingredienti decisivi, che rendono la sua ricostruzione originale, sensibile, assolutamente peculiare.
Il primo è l’elemento di “classe” intesa come classe sociale inglese- nello spiegare l’intera vicenda. Ciò che ha consentito a Philby di farla franca, al di là della sua incredibile abilità, è stato il suo essere un “upper class Englishman”. Questa condizione (che è molto più di un apparato esteriore di vestiti di ottimo taglio, club esclusivi, whisky e poltrone di pelle: ma è un modo d’essere, un’identità profonda e incancellabile) è stata il suo vero lasciapassare. Macintyre- ad esempio- è illuminante quando descrive la differenza tra i vertici di allora dell’MI6 (socialmente e direi antropologicamente simili a Philby: e infatti mobilitati a sua difesa), tutti di classe sociale alta e talora aristocratici, e invece i vertici dell’MI5,il servizio segreto interno (non a caso, storici accusatori di Philby), in genere di middle class e talora di working class, dai metodi a volte polizieschi. Sta proprio qui (una volta definitivamente scoperto il tradimento di Philby) il trauma subito da un’intera classe dirigente: chiamata a fare i conti con i crimini e la doppiezza di “uno di loro”.
MENZOGNA
Il secondo elemento, ancora più significativo, è il modo in cui Macintyre descrive l’amicizia profonda di Philby con almeno due persone: da un lato, James Jesus Angleton, un americano che sarebbe diventato il capo della Cia, e di cui Philby è mentore e quasi fratello maggiore; dall’altro, l’inglese Nicholas Elliott, con cui Philby percorre grado per grado tutta la carriera, da Cambridge ai massimi livelli dell’MI6, in una frequentazione pluridecennale estesa alle rispettive famiglie, in una comunanza esistenziale che sarà rotta solo dall’inequivocabile prova del tradimento di Philby. Proprio Elliott, il suo più convinto difensore, ma anche- a questo punto- il suo amico più deluso e indignato, sarà inviato dall’MI6 a Beirut per un colloquio finale con Philby e per un’estrema proposta (un’offerta di immunità in cambio di una confessione totale).
Quel colloquio, reso da Macintyre in modo vibrante, è la quintessenza di un certo spirito inglese: elegante e insieme brutale, civile ma feroce, uno dei dialoghi più importanti per capire la Guerra Fredda. Finirà come si sa: con una parziale ammissione di Philby che però, nei giorni successivi, deciderà di fuggire definitivamente a Mosca. In quelle pagine finali, Macintyre allunga su ognuno di noi l’ombra dell’angoscia. Non si tratta più di essere o non essere britannici, di classe alta o meno alta. Ma di interrogarsi sull’inganno come dimensione esistenziale, sulla menzogna come parte (forse non cancellabile) della condizione umana. Nulla, per Philby, è sembrato valere il prezzo della lealtà: non l’Occidente, non l’amicizia, non la famiglia (con la seconda moglie morta di alcool e di dolore). Eppure tutti sembrano magicamente incatenati al suo fascino: la terza moglie, pur a sua volta ingannata per anni, non resiste all’idea di perderlo, dopo la fuga finale di Philby verso Mosca, e lo raggiunge oltre la Cortina di ferro. E Philby- naturalmente - tradirà anche lei, peraltro con la moglie di uno dei suoi compagni inglesi di tradimento e di spionaggio, Maclean, ormai esiliato a Mosca. Lo ha scritto bene John Le Carré, e il racconto di Macintyre rende benissimo l’idea: per tutta la sua vita pubblica e privata, Philby è stato guidato, oltre che dal gusto dell’avventura, dalla droga irresistibile dell’inganno.