Cgil francese "verso la bancarotta": Sophie Binet, misure etreme
La scorsa settimana, Sophie Binet, eletta a marzo segretaria generale della Cgt, ossia numero uno dello storico sindacato della gauche radicale francese, ha promesso un 2024 di «disobbedienza civile» e di «azioni di resistenza» contro la nuova legge sull’immigrazione votata dal governo macronista con i gollisti e i lepenisti, una legge che «mette profondamente in discussione tutti i nostri princìpi repubblicani» e «stende il tappeto rosso all’estrema destra», secondo le sue parole.
Binet, soprattutto, ha giurato che la Cgt sarà in prima linea nell’organizzazione delle manifestazioni che si svolgeranno a Parigi ad inizio anno. Ma la domanda, perfida, che circola nel mondo politico -sindacale è la seguente: avrà i soldi per organizzare tutte queste iniziative? Stando a quanto rivelato ieri dal Canard enchaîné, senza un piano di austerity lacrime e sangue, la Cgil francese rischia infatti la bancarotta. Lo scorso 5 dicembre, in totale discrezione, la commissione esecutiva federale e la commissione finanziaria di controllo della Cgt si sono riunite nella sede dell’organizzazione sindacale. E le notizie annunciate da Laurent Brun, amministratore cgetista e braccio destro di Sophie Binet, sono state tutt’altro che rassicuranti: il deficit per il 2022 ammonta a 5,3 milioni di euro e un documento confidenziale interno consultato dal Canard ha messo in luce una «défaillance totale nella gestione dei conti». Senza misure radicali prese a breve termine, la sopravvivenza del sindacato fondato nel 1895 «potrebbe essere in pericolo», perché non si tratta di qualche spesa pazza qua e là: è l’intero sistema Cgt a essere in perdita. «La stragrande maggioranza dei dérapages è strutturale», si legge nel documento.
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RAZIONALIZZARE
I primi tagli draconiani dovranno abbattersi sulla massa salariale, che dipende al 95 per cento dalle quote di iscrizione al sindacato: il costo totale per mantenere questo leviatano è di 12 milioni di euro, la spesa più corposa per l’organizzazione guidata da Sophie Binet. Ma c’è un grosso problema: nel 2022, c’è stato un sovraccosto di 1,5 milioni di euro rispetto al 2021. «Bisognerà alleggerire la macchina», ha annunciato Laurent Brun durante la riunione del 5 dicembre. E non sarà certo un’impresa facile, alla luce dello spirito oltranzista e battagliero dei sindacalisti d’oltralpe. «Poco tempo fa, la mancata sostituzione di alcune persone che hanno lasciato la Cgt ha provocato la realizzazione di un volantino da parte del sindacato del personale, ripreso da alcune organizzazioni e distribuito all’interno del comitato confederale nazionale”, ha rivelato Brun. A confermare la gravità della situazione è stata anche Sabine Alexis, presidente della commissione finanziaria di controllo. Lo stato attuale del sindacato rosso, «traduce, purtroppo, in maniera più che mai concreta, la malattia delle “tasche bucate” che da anni sta consumando la Cgt», ha dichiarato Sabine Alexis. Senza dimenticare le grandi sconfitte politiche incassate dall’organizzazione sindacale negli ultimi anni.
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BATOSTE
Nel 2017, la Cgt, affossata dall’ex leader Philippe Martinez, uno che voleva ridurre da 35 a 32 le ore settimanali di lavoro dei francesi e invocava senza sosta «la generalizzazione degli scioperi», è stata superata dalla Cfdt, il sindacato riformista, in termini di rappresentatività. E da quel momento, è stato un susseguirsi di batoste. L’ultima è arrivata a novembre: dopo 77 anni di dominio incontrastato, la Cgt ha perso il suo posto di primo sindacato di Edf, il colosso nazionale dell’energia, a beneficio della concorrente Cfe-Cgc. Una sconfitta, come raccontato da un articolo del Figaro, figlia di finanziamenti occulti, impieghi fittizi e gestioni dei conti calamitose. Le stesse che rischiano di far chiudere i battenti alla Cgt in assenza di una cura dimagrante. Come fatto notare dal Canard enchaîné, Binet ha ereditato un sindacato sul viale del tramonto e rischia di dover essere la prima leader sindacale ad annunciare dei licenziamenti di massa per salvare la baracca. Non proprio la situazione ideale per chi promette un 2024 di «disobbedienza civile».
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