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7 ottobre, la guerra ha teatri diversi e molte repliche. Ma un solo nemico

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Daniele Capezzone
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L’ennesimo attentato a Parigi, con il solito grido «Allah Akbar» e la scia di sangue a cui ci stiamo tragicamente abituando, ci ricorda tre cose. La prima - e si tratta di un copione ormai fastidioso- è il tentativo di derubricare l’episodio evocando i presunti «problemi psichiatrici» dell’aggressore, un francese di origini siriane. Ma, in tutta franchezza, i problemi psichiatrici rischiamo di averli noi, se ancora, qui in Occidente, mettiamo in campo piccole tattiche per attenuare -attutire -smussare, per fingere di non aver capito ciò che invece è tragicamente sotto i nostri occhi. Qualcuno può ancora illudersi di andare avanti con la strategia della negazione e degli occhi chiusi, ma dovrebbe essere chiaro a tutti che abbiamo davanti una irrisolta questione islamista (prima o poi toccherà scrivere: islamica), in virtù della quale ci sono soggetti e gruppi radicalizzati pronti a colpire, a sgozzare, a uccidere per motivi religiosi. Vogliamo continuare a ingannarci, ad autocolpevolizzarci, a fare convegni sulla mancata o incompleta integrazione, oppure iniziamo a fare i conti con una realtà dolorosa ma innegabile?

Il secondo tema con cui fare i conti è quello dei soggetti segnalati come radicalizzati: anche l’assassino della Torre Eiffel era infatti - come accade sempre più regolarmente - schedato. Lo stesso era accaduto, come si ricorderà, per i responsabili dei due più recenti attentati in Europa, ad Arras e a Bruxelles. Questa volta - se possibile- il precedente è ancora più inquietante, visto che l’uomo era stato fermato nel 2016 e accusato di preparare un attentato.

 

 

 

PERICOLOSI AZZARDI

Ora, chi scrive è un garantista, ma occorrerà - prima o poi - chiedersi se il nostro armamentario giuridico ordinario sia adeguato rispetto alla sfida del terrorismo fondamentalista. Nessuno vuole travolgere le garanzie costituzionali o sovvertire il principio della presunzione di innocenza: ma è evidente che, con questo tipo di rischi, lasciare in libertà soggetti su cui gravano simili ombre di pericolosità è un azzardo che rischiamo di rimpiangere amaramente.

Né si può puntare - in termini risolutivi - sulla pura e semplice sorveglianza delle persone “segnalate”. Il loro numero, in tutta Europa, è infatti altissimo, ed è inimmaginabile che per ciascuna di esse siano quotidianamente mobilitati 6-8 agenti, ai fini di un monitoraggio perpetuo, ventiquattr’ore su ventiquattro. E se a questo si somma la realtà delle procedure che consentono a un richiedente asilo un margine di 18-21 mesi prima che l’iter si esaurisca (tra domanda, reiezione, ricorso e diniego finale), tutti comprendiamo che esiste un numero elevatissimo di soggetti di pericolosità letale a cui stiamo offrendo una chance rischiosissima per la nostra convivenza pacifica. Resta dunque un’opzione che non piacerà a qualche anima bella, ma che mi pare di grande ragionevolezza (almeno verso chi non abbia cittadinanza di uno stato Ue): fluidificare ed estendere i casi e le procedure di espulsione dai nostri territori (da ciascun Paese e dall’Europa) dei soggetti segnalati.

La terza e ultima questione da esaminare è quella strategica e geopolitica: il “7 ottobre” ha tante facce. C’è stata l’atroce azione di Hamas contro i civili israeliani, ma c’è stato pure l’appello- tramite Al Jazeera- al jihad globale, che in una forma o nell’altra è stato raccolto da qualche soggetto in giro per l’Europa. Che si tratti di “lupi solitari” o meno, l’effetto è comunque letale. Chi sia in cerca di consolazione, può constatare come a Bruxelles, un mese e mezzo fa, l’uomo che aveva ucciso qualche ora prima due svedesi, una volta ritrovatosi nel mezzo di un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine, sia stato rapidamente freddato: dunque, non era forse un superguerrigliero. Ma era comunque un soggetto rivelatosi capace di maneggiare e usare un kalashnikov.

 

 

 

TEATRI DIVERSI

Nel caso di Parigi, il fatto che l’aggressore abbia agito “solo” con un coltello e un martello fa effettivamente pensare a un certo grado di improvvisazione: mala determinazione feroce del fanatico gli ha comunque permesso di uccidere una persona e di ferirne due. In ogni caso, lo vogliamo capire o no che è la stessa guerra combattuta in teatri diversi? C’è il teatro principale (in Medio Oriente), ma ci sono anche le nostre capitali, ed è illusorio fingere che non sia così. In questo senso, è molto importante la manifestazione convocata a Roma domani sera, martedì, alle 19, a Piazza del Popolo, dalla Comunità ebraica di Roma e dall’Unione delle comunità ebraiche italiane, con lo slogan “No antisemitismo, no terrorismo”. I due concetti sono indissolubilmente legati.

Dopo l’attentato di Parigi, ad esempio, non è passato inosservato un tweet amaramente sarcastico di Jonathan Pacifici, che, nell’esprimere solidarietà alla Francia, ha svolto un’efficace e dolorosa caricatura adattata al caso francese - di ciò che di solito viene assurdamente detto dall’Europa a Israele: «Invitiamo però al dialogo e a non combattere i terroristi perché violenza chiama violenza. L’unica soluzione è politica con la creazione di uno Stato islamico nella Gallia storica con capitale Parigi Est». Questo paradosso doloroso e ironico, messo nero su bianco da una personalità del mondo ebraico, dovrebbe far riflettere molti: chinare la testa rispetto ai violenti non servirà a nulla, né in Medio Oriente né nelle nostre città. Prima lo capiremo, meglio sarà.

 

 

 

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