Israele, la scelta di Daniel: "Lascio moglie e figli", l'italiano al fronte contro Hamas
«Quando l'esercito ti chiama, devi andare», mi spiega Daniel, trentun anni, cittadino israeliano da dodici. Il tono è asciutto, poco allusivo. Poi si accorge della mancata enfasi, e aggiunge precisando: «Cerco di isolare i miei sentimenti, di essere più razionale». Nato e cresciuto a Milano, Daniel è diventato padre per la terza volta appena due mesi fa. «Lasci a casa moglie e figli e metti al primo posto il tuo Paese, perché?», gli domando. «Quando ti chiamano, devi andare», ribadisce lui. «Mi chiedi se tutto ciò mi risulti automatico? No, ma è giusto così».
La storia di Daniel è la storia dei riservisti italiani ora di ritorno in Israele, o addirittura già in prima fila al confine con Gaza e con il Libano. La storia di chi, mosso dal senso del dovere, di responsabilità e di amore per la Terra di Israele, lascia tutto e abbraccia l’arma. «Ci stiamo preoccupando per gli italiani in Israele. Ce ne sono circa 18 mila che vivono lì. Un migliaio sono giovani che stanno svolgendo il servizio di leva con l’esercito israeliano, 500 sono pellegrini o persone che lavorano pro tempore in Israele, poi ce ne sono una decina nella Striscia di Gaza», aveva rivelato il ministro degli Esteri Antonio Tajani a In Mezz’ora su Rai3.
«Ho sempre sognato di arruolarmi nell'IDF», mi svela invece Ryan dai capelli rossi che brillano persino al buio e un sorriso contagioso. «Mi sono trasferito con la mia famiglia in Israele undici anni fa e da allora aspetto il momento dell'arruolamento», confessa il giovane riservista, classe '99, decisamente più entusiasta di Daniel, forse meno consapevole del pericolo, probabilmente più spensierato di indole. «Mi sono arruolato come paracadutista, ho terminato il mio servizio militare e sabato, all’ora di pranzo, poco dopo l'infiltrazione di Hamas, sono stato richiamato.
Nonostante la paura e il senso di smarrimento per questo attacco feroce e inaspettato, sono orgoglioso di poter contribuire alla sicurezza del mio Paese e rincontrare i miei compagni di battaglione al fronte. Mi emoziona vedere come il popolo israeliano si riunisce nei momenti di difficoltà, come si lascia alle spalle le diatribe a favore di un obiettivo comune. Mi fa sentir parte di qualcosa di grande, di una cultura millenaria. Abbiamo un solo Stato Ebraico al mondo, è un onore per me poterlo servire e difendere», afferma Ryan. Poi sorride di nuovo e promette: «Questa guerra la vinceremo». Anche Samuel, ventiquattrenne di Milano che abita in Israele da quando ne aveva quindici, la pensa come Ryan, ma con qualche timore in più. «Ci siamo preparati per due giorni e, a partire da ieri sera, siamo operativi», racconta.
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Mentre confessa di aver riscoperto il popolo israeliano in un momento di difficoltà. «Riceviamo moltissime donazioni, quantità industriali di cibo che arrivano sul fronte, lettere e disegni di bambini. Mi emoziona molto tutto ciò». Samuel lavora come educatore in un kibbutz. Morris invece, venticinquenne di Roma, dopo il rilascio dall'esercito e un lavoretto part time, ha deciso di staccare tutto e andare in vacanza in Sri Lanka. «Appena è scoppiata la guerra ho controllato i voli di ritorno. Il mio comandante mi ha detto di non tornare ancora, ma io ho già un biglietto per domenica. Sto valutando di anticiparlo». Le sue parole mi ricordano quelle di Daniel. Quando l’esercito chiama, bisogna andare. Talvolta, bisogna andare anche quando non chiama. «Penserai ai tuoi figli quando sarai al fronte?», domando proprio a lui. A Daniel, il neo papà. «So che mi risulterà naturale pensare a loro, ma spero di non farlo. Renderebbe il tutto più difficile, più doloroso», conclude.
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