Tesla, ora gli ambientalisti radicali le bruciano
Paradossi del radicalismo ambientalista. Finiscono al rogo- neppure fossero fattucchiere - le verdissime (?) Tesla. Certo fa riflettere l’assalto notturno - rilanciato dall’agenzia Dpa - ad un rivenditore delle famose macchine a batteria, diventate icona della svolta ambientalista a quattro ruote. A metà settembre in Germania un gruppo radicale di sinistra di Francoforte-Fechenheim ha dato alle fiamme il parco macchine di un rivenditore locale. Rivendicando l’assalto, per chi avesse qualche dubbio, con un comunicato: «L’azienda (Tesla, ndr) rappresenta l’ideologia del capitalismo verde e della distruzione globale e colonialista», sottolineando poi che l’auto elettrica sia semplicemente una «cinica menzogna». Non è ancora chiaro se gli eco terroristi dall’anima green (che nella notte fra martedì 12 settembre e mercoledì 13 hanno dato alle fiamme) , appartengano alla stessa falange che hanno bloccato il traffico sulla tangenziale tagliando pure gli pneumatici dei Suv.
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Per il momento quello che è certo è che 15 auto sono finite al rogo - neppure fossero le streghe del Medioevo - è che per estinguere le fiamme della flotta Tesla Model 3 ci sono voluti ben 45mila litri d’acqua. Con buona pace dell’impatto ambientale (dell’impronta ambientale) che ogni comportamento umano porta in dote. Nella narrazione corrente la macchina elettrica doveva rappresentare la panacea di tutti i mali dell’inquinamento globale. Gli Stati Uniti hanno varato, nel dicembre scorso un maxi piano miliardario per sostenere l’industria “verde” (agevolazioni fiscali e sussidi pari a 367 miliardi di dollari per aumentare la produzione interna statunitense di veicoli elettrici, pannelli solari e batterie). Il che in soldoni facendo un raffronto per un automobilista medio americano - in un maxi sconto pari a 7mila dollari solo per sostituire l’auto con un modello a batterie.
Ma c’è dell’altro. Mentre la Norvegia ha deciso di abbattere i consumi di carburanti fossili (l’88% del parco auto privato circolante è a batterie), non disdegna di esplorare i nuovi giacimenti per garantirsi, insieme alla Gran Bretagna quell’autonomia energetica che la crisi del conflitto tra Ucraina e Russia ha messo in risalto. Giusto l’altro ieri la Gran Bretagna ha dato il via libera a un importante progetto per garantirsi l’estrazione di petrolio e gas nel Mare del Nord. E infatti la North Sea Transition Authority ha approvato lo sviluppo del giacimento di Rosebank, consentendo ai proprietari Equinor e Ithaca Energy di portare avanti il progetto circa 130 chilometri a nord-ovest delle Isole Shetland. L’Nsth britannico ha un doppio ruolo un po’ bizzarro: da un canto deve per mandato «massimizzare i benefici economici delle risorse energetiche britanniche del Mare del Nord» così come dovrebbe «a di aiutare il Paese a raggiungere i suoi obiettivi di riduzione delle emissioni di carbonio». Bizzarro come mandato un tantino divergente. Come se non bastasse il primo ministro Rishi Sunak in vista delle elezioni già fissate per il 2024 - ha scartavetrato gli impegni ambientali. A cominciare dal rinvio (dal 2030 al 2035) del divieto di circolazione dei veicoli a benzina e diesel. E la Norvegia cose c’entra? Equinor, azionista all’80% di Rosebank, investirà tanto per cominciare 3,8 miliardi di dollari nel progetto esplorativo con la società britannica Ithaca Energy (20%). Come dire: si può essere green a Oslo e dintorni ma poi pecunia non olet. Tanto meno quello del petrolio dei mari del Nord.
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